Sapere critico e democrazia
Molti avranno visto sul web questa immagine, in queste settimane di recrudescenza del conflitto israelo-palestinese. Molti di meno, a giudicare dalla frequenza delle condivisioni, hanno realizzato che tutte queste mappe, nessuna esclusa, sono sbagliate. Non sono una presentazione unilaterale o ideologizzata della realtà storica. Sono proprio infondate sul piano delle informazioni di base. Per una certo unilaterale, ma non infondata denuncia delle responsabilità israeliane ci sarebbe sicuramente materiale su cui lavorare, ma in questo caso si è preferito ignorarlo per inventare spiegazioni di sana pianta.
Quasi più della diffusione virale di questa sequenza di obbrobri, però, mi preoccupa la reazione comune quando faccio notare che qui si pasticcia tra confini del “territorio palestinese” rivendicato o riconosciuto in varia forma dall’amministrazione israeliana, confini di altri paesi arabi confinanti, progetti di ripartizione messi in campo e rifiutati. La reazione più comune è l’equivalente di un’alzata di spalle, come a dire “Chi se ne frega? Non siamo mica a un esame di Storia contemporanea! Inutile fare i pedanti, l’importante è denunciare la gravità della situazione nel modo più evidente possibile”. Una risposta curiosamente simile a quella, generalmente diffusa in altri settori dell’opinione pubblica, a quella generata dal chiarimento sul fatto che gli “zingari” in Italia rapiscono i bambini forse persino meno frequentemente di quanto lo facciano gli altri abitanti del paese, perché “comunque commettono sicuramente crimini e bisogna stimolare l’ostilità degli italiani nei loro confronti”.
L’idea è insomma che, una volta condivise le conclusioni di un discorso, va bene accettare e promuovere anche i ragionamenti che le fondano su dati clamorosamente errati o su passaggi fallaci non verificati. Di più, che la conoscenza dei dati di fatto e il controllo della solidità logica degli argomenti non rappresentano un elemento decisivo per valutare le prese di posizione e la possibilità di sostenerle, evidentemente perché sono più importanti elementi come la contiguità ideologica con le convinzioni sviluppate in altri ambiti, le tendenze predominanti nel nostro gruppo sociale, il senso comune diffuso, oppure, sulla base della predisposizione psicologica, il gusto di contraddirli. E così, sostanzialmente, qualunque assunto si può sostenere, e qualunque obiezione non sarà mai sufficiente a condurre a una revisione: del resto, si assumerà che anche chi sostiene opinioni diverse dalle nostre le abbia maturate con la stessa sciatteria, e che quindi non possa offrire niente di interessante.
La diffusione di questi atteggiamenti è non solo evidente sulla base dell’esperienza di ognuno di noi, ma, almeno per quanto riguarda l’Italia, certificata da dati come quelli diffusi dal Pew Research Center sulla sempre maggiore propensione dell’opinione pubblica a condividere come fondative della propria posizione sui temi principali del dibattito notizie non verificate, specie se di natura autoassolutoria. È del resto in dibattito pubblico in questo stato che hanno potuto sguazzare, ciascuno nel proprio specifico campo operativo, truffatori come Vannoni e gli eredi Di Bella, un esponente politico che ultimamente ha posto ai giornalisti il dilemma etico sulla liceità di ospitarlo in TV vista l’impossibilità di compiere in tempo reale un accurato fact checking a fronte della frequenza delle sue panzane, e un “sistema” che per la propria sopravvivenza non esita a fondare condanne sportive e penali sulla mera necessità di assecondare il “sentimento popolare”.
Non è questo il luogo per chiarire una volta per tutte (se mai è possibile) le ragioni per questa proliferazione, né per verificare se davvero il nostro paese sta messo comparativamente così male o se è solo un’impressione dovuta allo sguardo eccessivamente ottimistico con cui di solito si ammira il mondo fuori dei nostri confini. Sicuramente, su un piano generale conta la rapidità con cui si è diffuso l’accesso a una quantità enorme di informazioni e alla possibilità di contribuire a diffonderle, rapidità strutturalmente superiore a quella con cui può diffondersi la competenza necessaria a utilizzare questo potere con proprietà. Nel caso specifico dell’Italia e di altri paesi che vivono una crisi di sistema, poi, si è aggiunta probabilmente la progressiva erosione della credibilità di una classe dirigente che dapprima, con la “presa” sociale delle grandi istituzioni politico-culturali sulle correnti d’opinione, limitava le “sbandate” delle masse, o attraverso una poco democratica soggezione, o attraverso una più sana opera di insegnamento e persuasione.
Quello su cui voglio però concentrare l’attenzione è, in modo più limitato e puntuale, il pericolo per la qualità della vita democratica che può rappresentare la promozione, in qualunque forma, di un atteggiamento di disinvolta e indiscriminata condivisione di errori e menzogne che accidentalmente sembrano rappresentare un sostegno alle tesi che sentiamo più vicine. John Dewey era solito sostenere che un sistema democratico efficiente era “il metodo dell’intelligenza e della scienza applicato alla vita sociale”. In altri termini, se una definizione prima facie di democrazia è quello di un insieme di procedure decisionali basate sulla regola maggioritaria applicata in un contesto che assicuri i diritti fondamentali necessari alla libertà nella partecipazione, l’uguaglianza dei partecipanti, la trasparenza dei procedimenti, la salvaguardia delle minoranze, ecc., per il suo funzionamento positivo è necessario proporre alla decisione maggioritaria quelle opzioni che, passate attraverso il vaglio del sapere critico, si sono dimostrate fondate nei dati di fatto che assumono e non inficiate da fallacie logiche nella loro costruzione. La conoscenza, insomma, deve rappresentare un filtro alle opzioni sottoposte a giudizio del pubblico democratico, limitando le possibili scelte sulla base della qualità dei metodi e dei processi conoscitivi attraverso cui sono individuate e sostenute.
Nella profonda connessione tra democrazia e istruzione diffusa proposta da Dewey, responsabili di questa selezione sono tutti i cittadini: a loro, di fatto, è richiesto di autocensurarsi dal sostegno pubblico di qualunque cosa passi loro per la testa senza un fondamento critico, o quantomeno è richiesto di sviluppare una preparazione culturale sufficiente, se non a elaborare proposte criticamente fondate, a riconoscere quali interpretazioni della realtà e quali opinioni sono degne di essere prese in considerazione per il loro fondamento, e soprattutto a riconoscere i propri limiti, affidandosi per questioni su manca adeguata competenza a chi può offrirla.
Per quanto mi riguarda penso che l’accidentata via proposta da Dewey, ovvero il coinvolgimento nei processi decisionali democratici di cittadini più consapevoli attraverso una diffusa preparazione culturale sia l’unica percorribile, visto anche che le strampalate propose di revisione del suffragio universale sono generalmente prodotte da persone così superficiali e poco preparate che, se prese sul serio, sarebbero tra le prime a perdere la possibilità di partecipare alla vita istituzionale. Comincio peraltro a dubitare che il problema non sia tanto in un corpo elettorale che si vorrebbe per definizione formato in gran parte da persone inadeguate e irrecuperabili al ragionamento razionale e all’esame critico delle opinioni, ma proprio nei professionisti che dovrebbero, a vari livelli, curarsi di offrire al numero più ampio possibile di persone l’accesso a questi strumenti intellettuali irrinunciabili per il benessere di tutti, ovvero chi lavora nel mondo della formazione e della diffusione della conoscenza.
Da questo punto di vista, mi trovo in un osservatorio privilegiato. Lavoro a tempo pieno all’università da anni, e vi lavoro in un campo come la storia, che non ha sviluppato un proprio linguaggio particolarmente diverso dalle forme espressive comuni, e appare ai non addetti ai lavori immediatamente accessibile solo perché i discorsi degli esperti in materia sono più facili da scimmiottare rispetto a quelli, per dire, dei matematici. Questo rende il mio campo di studi una sorta di “anello debole” del sapere, perché più esposto alle incursioni di personale non solo incompetente, ma anche intellettualmente poco preparato in generale, che col supporto della grancassa di reti mediatiche spesso guidate in maniera tutt’altro che innocente occupa indebitamente il campo che sarebbe bene destinare a indagini ben più proficue. Probabilmente, questa mia sensibilità alla promozione e alla difesa del sapere critico nasce perché, per ragioni professionali, mi sento direttamente danneggiato dalla tendenza a considerare indagine storica il gossip di dubbia professionalità solo accidentalmente incentrato su fatti non di attualità, o le elucubrazioni spesso malamente controllate e ricche di fraintendimenti sul Risorgimento scritte da un giornalista di vela.
Ma come se non bastasse, negli ultimi anni mi sono occupato abbastanza intensamente della storia delle politiche universitarie, e ho quindi iniziato a guardare agli equilibri istituzionali e ai mutamenti normativi nel nostro sistema di formazione superiore con un occhio più attento alle possibilità offerte dalla comparazione, con maggiore profondità storica, e con una maggiore comprensione dei modelli teorici di riferimento. Questo mi porta sempre più spesso a confrontarmi con colleghi studiosi e ricercatori di altre discipline. Ovviamente ciascuno dei diretti interessati ha le sue idee su come si dovrebbero risolvere i problemi, e di solito chi non ha conoscenze approfondite in materia tende a prestare eccessiva fiducia in retoriche (come quella dei “baroni” e della loro scarsa moralità) nate da interpretazioni parziali e frettolose di alcuni sintomi dell’inefficienza dei tradizionali sistemi di gestione degli atenei italiani, o a prestare assoluta fede a narrazioni su presunte età d’oro del passato generate da esperienze individuali per definizioni parziali e caratterizzate dalla scarsa consapevolezza delle dinamiche di sistema. Solitamente, io faccio notare che in realtà i gravi problemi attuali hanno radici profonde, visto che il problema della scarsità dei posti di ruolo e il ricorso a “truppe di riserva” ha rappresentato un elemento di riequilibrio standard per l’offerta didattica e di ricerca fin da prima dell’Unità, o che non è possibile paragonare i contorni e i sistemi di verifica dell’impegno finanziario dello Stato negli atenei quando questi accoglievano poche migliaia di persone e oggi, visto che anzi proprio il tardivo adattamento della nostra università alle dimensioni e alle funzioni adeguate a un’utenza di massa rappresenta una tara storica importante per la sua efficienza, o ancora che le riforme messe in campo negli ultimi anni, viste da vicino, appaiono assai poco legate nel loro funzionamento d’insieme ai modelli internazionali spesso citati per legittimarle.
Tutti questi, concludo di solito, sono naturalmente elementi essenziali per poter affrontare problemi gravi complessi come quelli della gestione del nostro sistema accademico in maniera proficua, e magari per poter formulare giudizi non peregrini e proposte fondate. Tuttavia mi sento sempre più spesso rispondere (e sento argomenti simili, ripeto, da professionisti specializzati nelle professioni accademiche) che “noi non siamo qui a fare la storia delle università”, ma a cercare di migliorare la situazione istituzionale attuale, e che “a noi interessa come vanno le cose in pratica, non le speculazioni teoriche”. Si è diffuso insomma, anche in un pubblico che si vuole culturalmente qualificato, e su un problema la cui soluzione positiva interessa questo pubblico direttamente, sembra ormai decisamente diffuso, in primo luogo, un atteggiamento che non considera la più solida e accurata conoscenza di una questione, del suo sviluppo storico e del contesto in cui ci si muove come primo passo ineludibile per elaborare e proporre soluzioni dotate di un qualche fondamento e compatibili con un funzionamento reale delle istituzioni; forse ancora più preoccupante in gruppi socio-culturali come questi è l’ingenua distinzione tra conoscenza scientifica e “pratica”, come se la ricerca sociale non avesse l’obiettivo di elaborare una conoscenza il più possibile adeguata della realtà, e fosse un semplice giochino intellettuale finalizzato a mettere insieme tasselli senza una rispondenza nell’esperienza esistente.
Concettualmente, non siamo di fronte a un comportamento molto di verso da quello dei “condivisori compulsivi” delle cartine dell’area israelo-palestinese, dei leghisti medi che si lamentano della bella vita dei “clandestini” a nostre spese senza avere idea di cosa parlano, o dei grillini d’allevamento che condividono con nonchalance le immagini meno credibili messe a disposizione dalla pagina Facebook di Senatore Cirenga: la consapevolezza di ciò di cui si parla è marginalizzata rispetto alla necessità di prese di posizione ad effetto, sbrigative, che suscitano il plauso facile di un pubblico altrettanto male informato e guidato più da emozioni e retoriche di scarso fondamento che da altro. Resta da capire quali sono le ragioni per cui anche chi più di chiunque altro non dovrebbe sceglie di fare così.
Essenzialmente, delle due l’una. Si può trattare di ignoranza. Il che significa, portando alle estreme conseguenze ma senza particolari forzature questi indizi, che una quota piuttosto cospicua di ricercatori professionisti in Italia non ha idea di cosa sia un lavoro di ricerca scientifica, di quale sia la sua funzione sociale, o quantomeno non riconosce lo status di lavoro critico a base scientifica a discipline diverse dalla propria e da quelle che concepisce come di statuto simile alla propria. Tenendo conto di questa presenza, anche piuttosto rumorosa, tra chi reclama un ruolo a tempo pieno nel campo della produzione della conoscenza, mi verrebbe da dire che la diffidenza con cui il governo guarda da tempo a queste istanze in prima battuta impossibili da rigettare non è del tutto ingiustificata.
È però più probabile che si tratti, più semplicemente, di malafede. Il ricorso al sapere critico, in effetti, pare disturbare perché limita il campo delle opinioni sostenibili nel dibattito. Impedisce di sostenere che i concorsi sono tutti truccati e “arrangiati” tranne quello che ho vinto io, che il sistema di reclutamento è inadeguato nella misura in cui mi sfavorisce ed efficiente nella misura in cui mi favorisce, che una strategia di finanziamento e di gestione delle risorse funziona bene essenzialmente sulla base di quanti soldi dirotta verso di me. E ormai le rivendicazioni di natura politica, anche in un contesto che dall’importanza fondamentale di una conoscenza criticamente fondata, della sua difesa e della sua diffusione trae la propria giustificazione ad esistere, sembrano potersi fare soltanto così.