Castità, povertà e obbedienza: consigli evangelici per i politici
La filosofia greca ha riflettuto molto sul concetto di virtù. Platone nella Repubblica enunciò 4 virtù che Ambrogio definì “cardinali”: prudenza, temperanza, fortezza e giustizia. Nel medioevo, Tommaso nella Summa theologiae (II, 1, q.61) vide come la prudenza discerne le azioni; la giustizia aiuta a compiere ciò che va fatto; la temperanza delimita rettamente ogni attività; la fortezza consolida in quello che è conforme alla ragione. Esse sono propriamente “virtù politiche”: l’uomo – politikòn zôon, animale sociale, politico e comunitario – le ha in sé per aiutarlo in ogni azione che lo mette in relazione ad altri. Già Agostino osservava come le virtù “civili” fossero vivificate dalle teologali: fede, speranza e carità.
San Tommaso, seguendo Plotino e Macrobio, ne vedeva le sfumature di intensità in un cammino di perfezionamento delle passioni disordinate; le quattro cardinali si declinano in virtù politiche che riconducono al giusto mezzo tali passioni, poi si fanno “purificanti” eliminandole, diventano “degne di un animo purificato” per dimenticarle e infine sono “esemplari” quando risiedono in Dio. In questa “fusione di orizzonti” tra aristotelismo, neoplatonismo e cristianesimo che porta il pensiero classico ad una “crocifissione” – la debolezza di Dio si coinvolge personalmente nella storia – la perfezione viene vista però non più genericamente nell’eroica “giustizia”, quanto nella tenerezza dell’amore, forma di qualunque virtù.
Le tentazioni: piacere, possesso, potere
Gesù ne offre la prova, offrendosi alla prova; nelle cosiddette “tentazioni” vive il rischio di tre forme di potere anziché la dimensione filiale del rapporto con il Padre. Come dal morso del serpente ricaviamo il siero antivipera, da ciò derivano tre antidoti al potere: castità, povertà, obbedienza. I “consigli evangelici” compendiano la vita del Figlio – e, oso dire, della stessa Trinità, nelle relazioni intime tra le Persone – alla quale siamo chiamati a prendere parte.
Non è assurdo dire alla persona che si impegna in politica che castità, povertà e obbedienza fanno anche per lei; anzi, sembrano fatte apposta per lei, in quanto esposta maggiormente alla triplice seduzione del potere. Seguendo l’ordine di Luca, la prima fa leva sugli istinti della pancia (trasformare la pietra in pane), la seconda sul possesso delle cose (ottenere i regni della terra adorando il diabolos, il divisore), la terza sulla religiosità (gettarsi dal tempio obbligando Dio a intervenire). C’è chi le interiorizza pensando ad un allenamento di corpo, psiche e spirito; altri le spiegano con la triade piacere/possesso/potere, oppure cuore/forze/anima.
I consigli evangelici valgono anche per i politici laici
Poter consumare tutti e tutto unicamente per sé: ecco la tentazione fondamentale, funzionalmente suddivisa per affrontarla in ogni sfaccettatura. Ermes Ronchi commenta: «Le tre tentazioni tracciano le relazioni fondamentali di ogni uomo: ognuno tentato verso se stesso, pietre o pane; verso gli altri, potere o servizio; verso Dio, lui a mia disposizione. Le tentazioni non si evitano, si attraversano». I consigli evangelici sono allora un farmaco trivalente che vince le “tentazioni”, nel loro complesso; sarebbe errato ricondurre ciascun consiglio alla rispettiva prova. Ad esempio, in quella dei “regni” non è in gioco solo la povertà, ma pure l’obbedienza e per certi aspetti anche la castità.
Castità, povertà e obbedienza sono i voti che, nella forma più evidente, professano i religiosi; tuttavia pure i laici, ciascuno nella propria condizione, sono invitati a viverli. Chi è chiamato alla santità nel servizio della politica – «forma più alta della carità» – non deve tagliarsi i connotati, vestirsi di sacco e rispettare orari ferrei. Per declinare questi consigli evangelici agli amici “politici” occorre sondare il nocciolo di ciascuno, per incarnarli così nell’ambito politico e attraversare le sfide concrete.
Come i politici possono vivere la castità?
La castità, innanzitutto, è «padronanza di sé […] ordinata al dono di sé» (CCC 2346). Questa autorità non va fraintesa: non è schiavizzazione del proprio corpo, della propria persona; piuttosto libera l’esistenza dai capricci dell’Io egoista: non rende le altre persone dipendenti da sé, né le strumentalizza. È fare buon uso di quello che siamo; si concretizza in un’amicizia pulita, anche politica. Sono innumerevoli le offese alla castità; più che ai “vizietti privati” che emergono negli scandali sessuali, penso ai partiti autoreferenziali (masturbazione), alle varie forme di voto di scambio, corruzione e concussione (prostituzione), al tradimento delle promesse elettorali (fornicazione), sino al godere delle disgrazie altrui (pornografia) e al sobillare odio (stupro). Attenzione alla subdola “castità menzognera” del puritanesimo: l’onesto contro tutti i ladri; ma chi è senza peccato… piuttosto guardi con lungimiranza, ponga in relazione i soggetti politici, si offra in una testimonianza non moralistica.
Come i politici possono vivere la povertà?
Gli interessi personali impediscono la dedizione alla cosa pubblica; ci sovviene la povertà: fare buon uso di quello che abbiamo. Non lo utilizza per ottenere consenso, fama e onori finalizzati a loro stessi, ma si fa servizio. Va benissimo rifiutare lussi, benefit e privilegi, ma non demagogicamente, con “povertà menzognera”; anche qui è richiesta una testimonianza non moralistica, incarnata nell’esistenza, non davanti alle telecamere. La povertà grida il grido dei poveri, riconosce l’essenziale e non si vanta di titoli altisonanti; non ruba, compra e non (si) vende, bensì mendica le risorse altrui (voti, finanziamenti, sostegno) con sobrietà e impegno condiviso, rifuggendo dall’“assistenzialismo” che crea dislivelli, dipendenze e possessività.
Come i politici possono vivere l’obbedienza?
Infine l’obbedienza, ovverosia il buon uso della nostra volontà; di fronte alla povertà della condizione umana riconosce i limiti della realtà, chiamando “pietra” la pietra e “pane” il pane, senza indorare retoricamente la pillola; l’“obbedienza menzognera” si chiama omertà, complicità, connivenza. Al politico non è chiesto di obbedire ad un superiore religioso; anzi, deve farsi testimone di laicità. L’obbedienza è vera quando primariamente ascolta la propria coscienza – l’unico “vincolo di mandato” – che gli indica come operare bene e ascoltare con sacro rispetto la volontà di tutti, riconoscendo con gratitudine e benevolenza il merito di ciascuno. Inoltre non impone né si lascia imporre diktat.
Dostoevskij compendia: «Bramavi un libero amore, e non già le servili effusioni dello schiavo al cospetto del potente, che una volta per sempre lo ha terrorizzato». Come chi si fa manipolare poi manipola a sua volta, chi si lascia amare ama. Anche in politica, il triplice antidoto ci aiuta a rifiutare la mortifera logica della manipolazione e a dare pieno assenso all’amore più libero; la nostra vita si trasfigura in una pro-esistenza: esistenza per l’a/Altro.
L’articolo è uscito sul numero 6 della rivista Nipoti di Maritain