Dal Blog: Il virus dell’antipolitica
Un interessante riflessione dal Sole 24 Ore:
Puntuale come le maree, è tornato il tema della “casta”. L’occasione è stata la bandiera bianca alzata dalla commissione Giovannini che doveva stabilire equi compensi per parlamentari e alti funzionari pubblici sulla base dei dati degli altri paesi europei. La missione era veramente impossibile, non solo per le ragioni tecniche addotte dal presidente dell’Istat: non si trovano corrispondenze precise per fare i calcoli. Soprattutto, non esistono illusorie scorciatoie tecniche a questioni profondamente politiche: in questo la vicenda della commissione Giovannini è specchio e metafora di problemi più ampi.
Le risposte tecniche o contabili, come quelle giudiziarie, alla cosiddetta “antipolitica” saranno sempre insufficienti perché le sue ragioni non dipendono soltanto dalle inchieste giornalistiche – sempre meritorie – sugli abusi o sugli eccessi. Infatti, nei Paesi dal rapporto più sano con la politica, le inchieste offrono occasioni per rinnovare il patto di fiducia, rimediare agli errori, mentre da noi hanno l’unico effetto di alimentare sentimenti antipolitici che, prolungati nel tempo, diventano naturalmente antidemocratici.
Io credo che le radici, da estirpare, dell’antipolitica si trovino nell’organizzazione della nostra economia e nel suo rapporto con i poteri pubblici. Nel secondo dopoguerra, gli enti pubblici in senso ampio – e dunque i partiti – avevano un ruolo fondamentale nel garantire il coordinamento strategico della scelte economiche, sia a livello nazionale che a livello locale e nei distretti, contribuendo a colmare i ritardi che ci separavano dagli altri paesi europei. Al netto degli abusi, che aumentarono nel tempo portando fino a Tangentopoli, è stata una funzione importante che ha consentito una crescita economica sostenuta e l’aumento del benessere di tutti. Per questo il populismo, sempre presente in ogni democrazia, non attecchiva.
La seconda Repubblica nacque anche per l’esaurimento di quel modello, che non poteva continuare a garantire crescita in un’economia aperta all’Europa e al mondo, e andava riformato. Tuttavia, i poteri pubblici – dunque anche la politica – pur abbandonando il ruolo di coordinamento economico (non potendolo conservare per il mutato contesto internazionale) hanno mantenuto una fortissima capacità di interdizione dell’economia privata e di impropria discrezionalità: basti pensare alle migliaia di consigli di amministrazione di servizi locali decisi dai partiti, ai vertici delle aziende sanitarie, fino alle poche grandi aziende pubbliche rimaste. Il tesoriere della Lega inquisito in questi giorni è stato consigliere di Fincantieri, una delle nostre aziende più importanti, senza alcuna chiara competenza in merito: una nomina dunque che danneggia l’economia italiana ben più dell’eventuale corruzione di cui è ora accusato.
Non esiste alcuna ragione plausibile che giustifichi questa discrezionalità e ciò, si badi, non ha nulla a che fare con la proprietà delle aziende. Si può anche decidere che la proprietà di alcune aziende debba rimanere pubblica, ma si deve allo stesso tempo sottrarre ai partiti la capacità di nominarne i vertici. Credo che nessuno pensi che le convinzioni ideologiche, ad esempio, di un medico siano parametri sulla base dei quali giudicare se è in grado di organizzare bene un ospedale, come invece avviene attualmente.
Questa pervasività della politica, ingiustificata e pertanto incomprensibile al cittadino comune, è all’origine dei sentimenti antipolitici perché traccia una strada irresponsabile e altamente inefficiente allo sviluppo economico. Essa, non a caso, ha accompagnato il periodo di maggior declino dell’economia italiana.
Paradossalmente quindi, puntare l’indice sugli scandali o sugli abusi distrae sia l’opinione pubblica che gli stessi protagonisti politici, dalle origini del problema e dalle possibili soluzioni. Se la politica vuole recuperare a se stessa e allo Stato il rispetto dei cittadini deve trovare uno spazio di azione più limitato ma per questo più autorevole, accompagnando e favorendo con riforme attente i processi di produzione economica, ma rinunciando a volerci entrare direttamente.
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