Netflix divide. Dobbiamo rassegnarci?
In un bell’articolo di questa mattina sulle pagine di La Repubblica, Ernesto Assante racconta della “Netflix revolution” che sta travolgendo il mondo della televisione e dell’intrattenimento in tutto il mondo.
Netflix è, infatti, la più grande piattaforma di video on demand al mondo: oltre cinquantamila titoli tra film, serie TV – alcune prodotte su misura e di straordinario successo – e documentari di eccellente qualità.
Ha già cinquanta milioni di utenti in tutto il mondo, sparsi negli Stati Uniti – dove è nata – in Canada, Messico, Sud America, Gran Bretagna, Irlanda, Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia.
A settembre sbarcherà in Germania, Francia, Austria e Svizzera, giusto al di là dei nostri confini ma perché li attraversi sarà necessario aspettare almeno fino al 2015 e non è ancora neppure certo che basterà.
Questioni connesse ai diritti d’autore ed alla pietosa condizione nella quale versiamo in fatto di banda larga glielo impediscono oggi e potrebbero continuare ad impedirglielo domani.
Eppure Ernesto Assante, Netflix, dall’Italia, ha voluto provarlo lo stesso e nel suo pezzo racconta passo dopo passo, come ha fatto e come potrebbe fare chiunque.
In fondo basta poco perché – a prescindere dai problemi di banda – i limiti che ci tagliano fuori dall’accesso ai cinquanta mila titoli offerti da Netflix a soli 8 euro al mese, non sono tecnologici ma solo ed esclusivamente giuridici o, meglio ancora, contrattuali.
I titolari dei diritti autorizzano Netflix a comunicare al pubblico le proprie opere solo in alcuni Paesi ed impongono, di conseguenza, a Netflix di rivolgersi esclusivamente ad un pubblico che sia in uno dei Paesi oggetto della licenza, che attivi un abbonamento utilizzando dati coerenti con tale residenza e che paghi con uno strumento che non tradisca tale provenienza.
Se, dunque, come “suggerisce” Assante, si “maschera” la propria provenienza, presentandosi a Netflix come residenti in uno dei Paesi nei quali il servizio è già attivo e non ci si tradisce, pagando con una carta di credito italiana, il gioco è fatto.
Ma è tutto legale?
A ben vedere sembra legittimo ritenere – con tutti i “se” e tutti i “ma” che, purtroppo, non mancano mai quando si parla di proprietà intellettuale – che lo sia o, almeno, che l’unico illecito che si pone in essere ha natura contrattuale ed è rappresentato dalle false informazioni che si forniscono a Netflix all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento.
Ma sembra davvero una “bugia” scusabile considerato che, poi, si paga regolarmente il prezzo e che, quindi, Netflix non soffre alcun danno e, anzi, ci guadagna.
E sotto il profilo del diritto d’autore?
L’industria di Hollywood potrebbe avere qualcosa da ridire?
Certamente si ma è difficile credere che avrebbe ragione a prendersela con i singoli utenti che, in fondo, pagano il biglietto per fruire di un contenuto reso ormai disponibile, in modo del tutto legittimo, in un altro Paese UE.
Chi potrebbe impedirmi di andare a comprare un film a Parigi o di noleggiarlo a Berlino?
E poi, a ben vedere, l’esperimento compiuto da Ernesto Assante e raccontato sulle pagine di La Repubblica, ricorda molto da vicino, la storia di Karen Murphy, gestrice di un pub inglese che, qualche anno fa, per far vedere ai suoi clienti le partite del campionato di calcio, decise di abbonarsi anziché all’esosa TV satellitare inglese, alla più economica tv satellitare greca, ovviamente dando a quest’ultima – per ottenere la relativa smart card – dei dati di residenza falsi, quelli di un indirizzo greco.
All’esito di una lunga e combattuta battaglia giudiziaria promossa dall’emittente televisiva inglese e della lega calcio di Sua Maestà, la Corte di Giustizia dell’Unione europea diede, nella sostanza, ragione alla gestrice del PUB e sentenziò che il tentativo della lega di frammentare artificiosamente il mercato unico europeo dei contenuti audiovisivi è incompatibile con il Trattato dell’Unione.
La decisione di allora, sembra calzare a pennello – con i distinguo del caso – nella vicenda Netflix nella quale, anzi, non serve neppure acquistare una smartcard né si usa il servizio in una dimensione commerciale come, invece, faceva Miss Murphy che condivideva le partite con gli avventori del suo pub.
Forse il “pacchetto” – all you can eat – da 8 euro al mese offerto da Netflix non è poi così lontano dall’Italia.
Ma certo è antipatico – lecito o semi-lecito che sia – dover ricorrere a stratagemmi di questo genere per accedere, pagando, ad uno sterminato patrimonio culturale ed informativo che oltre a dare una scossa all’asfittico mercato audiovisivo italiano, rappresenterebbe un’energica spinta nella direzione del pluralismo e della libertà di informazione ed una straordinaria occasione per l’industria creativa italiana giacché, come accaduto altrove, si aprirebbero immense praterie per la realizzazione di nuovi prodotti tagliati su misura per il web.
E’ un vero peccato che regole, lobby e miopia di pochi, impongano ai più un così importante sacrificio in termini culturali, democratici e di mercato.
“Il nostro modo di guardare la TV sta per cambiare”, scrive Ernesto Assante nel suo pezzo su Repubblica. E’ l’unica affermazione sulla quale si fa fatica a convenire.
Sembra, infatti – ma l’augurio è di sbagliarsi – che sia solo il “loro” – ovvero quello dei cittadini del resto del mondo – modo di guardare la TV che sta per cambiare.
Il “nostro” per oggi è drammaticamente uguale a quello di ieri e, forse questo è colpa di qualcuno a cui, in fondo, va bene così.