Afrodite: dea dell’amore e della fertilità, da Lucrezio a Queneau

Pubblicato il 23 Luglio 2018 alle 18:21 Autore: Salvatore Mirasole
Afrodite Venere

Afrodite: dea dell’amore e della fertilità, da Lucrezio a Queneau

Dea dell’amore e della bellezza, dalle lontane origini orientali, spesso identificata con Astarte e Ishtar o, anche quando la sovrapposizione viene meno, considerata assai affine ad esse. Per i Greci essa è Cipria, Urania, Pandemos, Filomedea o Filommedea (il problema qui è filologico ed ancor oggi senza soluzione) ovvero “amante del riso” o “amante dei genitali”; madre di Enea, moglie di Efesto, amante di Ares. Molteplici sono i suoi culti che attraversano la Grecia intera, dalle colonie occidentali a quelle orientali per passare dal Peloponneso. Afrodite, nota nell’immaginario collettivo come dea dell’amore e della bellezza, ma anche potenza generatrice della natura e della cruda sessualità.

La nascita di Afrodite come rappresentazione della fertilità

In Omero Afrodite compare già come figlia di Zeus e Dione, ma questa semplice nascita non spiegherebbe bene l’etimologia del nome della dea, i Greci difatti chiamavano aphròs, la schiuma del mare. Il dubbio ci viene chiarito da un celebre passo della Teogonia di Esiodo, autore considerato contemporaneo di Omero, ma che andrebbe visto più ragionevolmente come coevo a chi si occupò della stesura dell’Odissea, alla fine dell’VIII sec.

Il passo (Th. 176-200) descrive la morte di Urano per mano del Crono il quale, mentre il padre sta per congiungersi con Gea, lo evira scagliando lontano i genitali mozzati. Questi finiscono nel mare presso Cipro e mescolandosi alla schiuma danno vita ad Afrodite. Mentre le ultime gocce di sangue durante la caduta fecondano la terra dalla quale nascono le Erinni, i giganti e le Melie (ninfe del frassino). Dunque Afrodite in quanto nata dalla schiuma ed in essa allevata e Cipria, generatasi nei pressi di Cipro.

Il senso del mito appare chiaro e risale ad una delle fasi più arcaiche del mito di Afrodite, quello in cui la connessione con i concetti di fertilità e potenza sessuale appare forte.

Il legame con la fertilità è testimoniato anche nelle antiche rappresentazioni della dea, le quali rivelano il debito con il culto orientale e ctonio: la dea viene così rappresentata completamente nuda e l’unico dettaglio che la differenzia dagli altri dei sono gli attributi. Siamo lontani dall’immagine idealtipica a cui siamo abituati in virtù di rappresentazioni come la Venere di Botticelli.

Afrodite e la Venere di Lucrezio

Lucrezio è uno scrittore inusuale, egli compone versi dalla vis espressiva impareggiabile partendo da argomenti che egli stesso definisce ostili paragonandoli, all’inizio del IV libro dell’opera, all’amarezza dell’assenzio. Il De Rerum Natura è, effettivamente, un libro difficile: da un punto di vista metrico siamo ancora lontani dalla leggiadria di un Virgilio o di Ovidio, linguisticamente è un’officina continua di nuove parole e nessi atipici, passando per ardite metafore. L’argomento trattato non aiuta: l’Epicureismo come spiegazione dei fenomeni e dello spettacolo della natura. Tale spiegazione non è fine a sé stessa ma ha come obiettivo l’eliminazione del metus (paura) della morte e degli dei. Quest’ultima non va confusa però con l’ateismo: per Lucrezio gli dei esistono eccome, ma sono assolutamente indifferenti alle cose umane.

Essi abitano gli intermundia, porzione di cielo che Dante ha identificato nell’Empireo, e vivono una vita lontano dalle angosce e dalle ansie. È a tutti gli effetti un attacco contro la religione pagana per com’era vissuta ed intesa soprattutto dagli stoici, filosofia che l’elite politico-culturale romana aveva sposato appieno dal circolo degli Scipioni in poi. E qui ci troviamo dinanzi ad una contraddizione, giacché il proemio del De Rerum Natura è costituito da un inno a Venere, proprio una di quelle divinità dal cui giogo Lucrezio vuole liberare i mortali. Come si concilia la visione epicurea, iconoclasta e avversa al mos maiorum, con un’invocazione ad una dea, alla quale si chiede la pace per i Romani?

Il brano è stato spesso letto come un tradimento della filosofia epicurea, arrivando perfino a creare la figura di anti-Lucrezio in Lucrezio, visione schizofrenica corroborata dalla notizia biografia tarda secondo la quale il poeta si sarebbe ucciso dall’età di 43 anni circa. Eppure, le esegesi che si possono dare al brano sono molteplici.

Lucrezio: l’anti-Lucrezio. Un’interpretazione dell’inno a Venere/Afrodite

Innanzitutto l’elemento naturale compare spesso e spesso viene evocata l’immagine della terra feconda. L’espressione precisa è terras frugiferentis, terra che porta le messi: tu che popoli il mare solcato da navi e la terra feconda, versi 3-4. Ed ancora viene messa in risalto la potenza generatrice della dea al verso successivo:

per te quoniam genus omne animantum concipitur

grazie a te ogni specie animale si forma

Dunque Venere/Afrodite non sarebbe in questo modo la dea espressione del mos maiorum, la religione di stato contro cui il poeta si scaglia, ma si tratta di un ritorno alle sue fertili origini: la dea feconda, primaverile, in virtù della quale ogni cosa si crea, dal suo principio vitale ispirata. È l’artefice della natura stessa che Lucrezio nei suoi poemata celebra in quanto tale.

A questa va aggiunta anche una spiegazione tecnica: ogni tipo di poesia esametrica inizia con un inno, che si tratti di epica o, come in questo caso, di poesia didascalica. Lucrezio non fa eccezione, dal punto di vista formale, e principia l’opera secondo modalità ben note al lettore colto cui egli si rivolge.

Un interessante recupero in chiave dissacrante, Queneau e Venere nella Piccola Cosmogonia Portatile

Il modus e la vis operandi di Lucrezio non hanno trovato molto favore nei secoli successivi. Il suo testo viene addirittura dimenticato e riscoperto nel Rinascimento. Poeti come Dante e Petrarca non avevano letto Lucrezio di prima mano e forse a malapena erano a conoscenza della sua opera, qui e là citata nelle testimonianze antiche.

Bisogna fare un salto di duemila anni per ritrovare un’opera dal gusto lucreziano, gusto che però si esprime in relazione alla forma, non all’obiettivo ultimo: La Piccola Cosmogonia Portatile di Raymond Queneau, 1950 (il testo di Lucrezio è databile a metà del I sec. a.C.

Anche lo scrittore francese descrive lo spettacolo del mondo, partendo dall’infanzia della terra fino alle recenti scoperte dell’uomo: da vapori primordiali e nuvole di piombo alla scissione dell’atomo.

Altro elemento in comune con il poeta di Roma è la presenza di un inno a Venere in 43 versi, come in Lucrezio. Coincidenze?

L’inno a Venere di  Queneau

Vale la pena di leggere qualche excerpta per comprendere lo spirito diametralmente opposto che anima il poemetto, III, 110-120:

Tu Venere, amabile drizzatrice/ degli umani, che dai un buco agli esseri/ per ivi eiaculare, e alle montagne/ dai la valle, e dai pure il cilindro/ ai pistoni, l’infanta agli elefanti,/ alle tigri il Bengala, vacca ai tori,/ ed ai cicali doni la cicala, / al sol la notte, ed all’uomo la donna,/ gli animali che al lor debito tempo/ e luogo per tuo merito assaporano/ il pianeta nel qual procrean-fottendo.

Il tono mescola colloquialità ad elevazione, in gioco poetico che non ritroviamo in Lucrezio ed il verso scorre con quel sorridente scherzo che Queneau eredità dalla lezione surrealista del primo novecento francese. Che il francese abbia letto il De Rerum Natura appare ovvio. Se ancora non vi hanno convinto lo stesso numero di versi o la riproposizione di un inno a Venere all’interno di un’opera che celebra il mondo, vi convincerà un dettaglio linguistico: il termine banditrix, tradotto nell’edizione italiana con drizzatrice, dal verbo bander che indica l’erezione, è un calco del lucreziano genetrix, al primo verso dell’opera: Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, la progenitrice della stirpe di Enea diventa così inesauribile fonte di “ispirazione sessuale”.

Anche questo un ritorno alle vere origini della dea di Cipro.

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