Dal Blog: Disabilità mediatica
Alessandro Capriccioli ha ragione:
Lo so, che siete in buona fede.
Lo so, sul serio, e quindi mi spiace davvero dirvi quello che sto per dirvi.
Però devo provarci, anche se non so bene come; anche se non sono per niente sicuro di riuscire a spiegarmi come vorrei. Perché quelli come me a volte fanno fatica perfino a metterli a fuoco, i magoni che gli si agitano dentro. Figurarsi spiegarseli. E poi spiegarli agli altri.
Il fatto è che io ce l’ho, un fratello con Sindrome di Down. Più piccolo di me di dieci anni. E so che i bambini con Sindrome di Down fanno simpatia.
Pure troppa, ne fanno.
Al punto da essere diventati, mediaticamente, la faccia “cool” della disabilità. Il che, per carità, è pur sempre un veicolo. E i veicoli sono roba preziosa, perché portano le persone da qualche parte: nel caso di specie, in un modo o nell’altro, le conducono in una dimensione esistenziale che forse non conoscevano, le aiutano a sviluppare una sensibilità della quale erano ignare, gli aprono gli occhi su un mondo che esiste, del quale magari sapevano poco e niente.
Eppure.
Eppure c’è qualcosa di doloroso, nel ritrovarsi dalla parte dell’icona. Faccio fatica a dire con esattezza da dove viene, ma sono sicuro che c’è. C’è, perché quel dolore lo sento, ed è come una coltellata che arriva dopo una carezza, con una rincorsa lunga abbastanza da farsi sentire quando meno te lo aspetti, a letto mentre stai per addormentarti e ci metti qualche minuto, per capire che è.
Non sono per niente sicuro che si sarebbe scatenata una “commovente gara di solidarietà planetaria” se il bambino rifiutato (pare, ma non è certo) dalla coppia australiana fosse stato focomelico. Se fosse nato con la Sindrome di Turner. Con il leprecaunismo. Con la policefalia. Con la micromelia.
Anzi, sapete cosa? Sono abbastanza sicuro che non si sarebbe scatenata affatto, la commovente gara. Manco per il cazzo. Guardate, la butto là a caso: forse i giornali neppure l’avrebbero scritto. Perché, sapete com’è, un conto è piazzare in homepage un bel neonato Down paffutello e dolcissimo, un altro è mettercene uno fa raccapriccio solo a guardarlo.
Fidatevi: uno lo sente tutto, il peso di questa cosa.
Sente il dolorosissimo peso del sospetto che in molti, troppi casi non sia la disabilità, quella che spinge alla “gara di bontà”. Ma la sua mediaticità. Che con la disabilità, plausibilmente, può entrarci poco e niente. Che si tratti di fuffa e maniera e piacere di coccolare, sia pure da lontano, una specie di piccolo pet con la linguetta di fuori, come si fa con un cagnolino o con un gatto.
Sente il peso infinito del rischio che perfino la Sindrome di Down possa venir asfaltata e annichilita, nella realtà problematica che porta con sé, dalla sua immagine rassicurante e finisca per diventare, appunto, un’icona di bontà fine a se stessa.
Un’immagine vuota, dietro la quale finisce per non esserci niente.
Io lo so, che siete in buona fede. Dico sul serio. Però è questo, che mi si muove dentro ‘sti giorni.
Fidatevi, fa male. E a tratti, in un modo che davvero non saprei descrivere, fa pure incazzare.
Anche se magari non sono riuscito a spiegarlo come avrei voluto.