Libri consigliati, L’ultimo giorno di un condannato: Victor Hugo e la pena di morte

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Libri consigliati, L’ultimo Giorno di un Condannato: Victor Hugo contro la pena di morte. Un classico vivo.

In pochi sono riusciti a far identificare con il proprio nome un intero movimento artistico/letterario o addirittura un secolo. Padri, così li chiamiamo segno di beatificazione definitiva. Se prendiamo l’Ottocento, il romanticismo e la categoria dei romanzieri un nome sorge immediatamente, quasi d’istinto: Victor Hugo (1802-1885).

Narratore eclettico, egli è stato in grado di passare dal dramma al romanzo storico, sempre con pieno controllo del mezzo narrativo. Iconici sono ormai nomi come Les Miserables o Notre-Dame de Paris, consacrazione testimoniata dalle innumerevoli riproposizioni extra-genere: film d’animazione e non, fumetti, musical.

Quando un’opera travalica la natura stessa, quella per cui era stata concepita, traducendosi in linguaggi diversi, è allora che comprendiamo la statura di una tale opera. Che sia questa caratteristica a rendere un classico davvero un classico? Forse si, se si considera il classico in quanto opera viva e non come monumento intoccabile. Ai lettori l’ardua sentenza.

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Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato: un’opera coraggiosa contro la pena di morte

Tra gli scritti più coraggiosi di Hugo va indubbiamente collocato L’ultimo giorno di un condannato a morte del 1829, breve ma intensissimo livello. Come si evince dal titolo, l’esile trama ruota attorno l’attesa che precede l’esecuzione di un anonimo condannato. Proprio quest’ultimo ci narra l’ultimo tratto della sua vita, quello definitivo.

Come la voce narrante, anche il libro fu pubblicato anonimo accompagnato da poche parole a mo’ di introduzione, le quali meritano una lettura integrale:

Ci sono due modi per rendersi conto dell’esistenza di questo libro: o c’è stato davvero un fascicolo di fogli ingialliti ed ineguali sui quali si sono trovati, registrati ad uno ad uno gli ultimi pensieri d’un miserabile, o c’è stato un uomo, un sognatore intento ad osservare la natura a vantaggio dell’arte, un filosofo, un poeta o che altro so io, talmente preso dalla fantasia di quest’idea, che non ha saputo liberarsene se non gettandola in un libro. Scelga il lettore, di queste due spiegazioni, quella che maggiormente gli aggrada.

Miserabile, questo è l’appellativo che Hugo gli affibbia fin da subito, denotando la sua infelice condizione. Altro elemento è il tormento stesso dello scrittore, Hugo stesso, che oppresso da quest’idea non può far altro che gettare questo peso tra le pagine ingiallite di un manoscritto. Di queste due spiegazioni, comunque la si voglia vedere, rimane al lettore il senso d’angoscia. L’apparente scelta posta alla fine possiede il sapore dell’amara ironia, forse l’unico mezzo rimasto all’allora giovane Hugo, l’unica sua difesa contro la barbarie di una condanna a morte.

Retorica ed arte uniti per una causa comune

Ma non è così: l’unico vero scudo in questa battaglia è l’arte. Forse è più corretto però dire arte retorica, giacché nelle intenzioni dell’autore questo libello non si discosta di molto da un’orazione, una filippica. Difatti egli dice esplicitamente, non appena viene rivelato il suo nome:

Nient’altro che un’arringa, diretta o indiretta che sia, per l’abolizione della pena di morte.. E perché la difesa sia vasta quanto la causa deve.. continuamente evitare il contingente e l’accidentale, il modificabile, l’episodio, l’aneddoto, il caso ed il nome, e limitarsi (se ciò poi è davvero un limitarsi) a difendere la causa d’un qualsiasi condannato giustiziato per un qualsiasi delitto, in un giorno qualsiasi.

Sospeso dal tempo e dalle circostanze, egli il condannato non deve avere volto affinché il suo volto sia il nostro e nostre siano le sue tribolazioni. La nostra identificazione con il personaggio, dunque l’empatia necessaria per sposare la causa anti pena di morte, parte da una non-identità fisica e spazio-temporale. Hugo non tradisce le premesse metodologiche e difatti nel romanzo è completamente assente una descrizione fisica dell’infelice condannato né, tantomeno, il suo nome: manca insomma ogni riferimento preciso a fatti e persone.

Lo scrittore francese ci restituisce così un manifesto di atemporale civiltà e splendore retorico, di una retorica tipicamente romana, turgida di pathos, fondata sulle emozioni e sul controllo di quest’ultime, quelle del lettore, nel caso specifico orientate verso la commozione per la sorte del condannato a morte nei confronti del quale si attua una plausibile identificazione.

Ma non solo. A tratti il libro di Victor Hugo diventa anche una feroce satira che ha come obiettivo la società del tempo. Lo schiamazzo del pubblico quando il condannato viene portato alla gogna, descritto come un coro di iene, ad esempio. O il metaletterario prologo dell’edizione originale: un dialogo in un raffinato salotto della Parigi bene nel quale i presenti criticano con asprezza quanto il libro veicola, sia da un punto di vista dello stile che del contenuto.

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