(In collaborazione con Mediterranean Affairs)
La Libia sta cercando una propria identità politica attraverso le elezioni, elemento imprescindibile per l’instaurazione di un sistema democratico, ma dovrà anche decidere quale rotta intraprendere per rimettere in moto la propria economia fiaccata da anni di conflitto interno apparentemente lontano dal concludersi. Procede, quindi, su un doppio binario la fase di transizione del paese nord africano, che per alcuni osservatori potrebbe portare perfino al fallimento dello Stato o al ritorno ad uno Stato autoritario.
Se il quadro politico libico risulta assai frammentato ed intricato, diviso tra fazioni di più o meno facile individuazione, l’economia libica presenta delle criticità legate alla gestione delle risorse energetiche, un settore che da solo conta per quasi la totalità del bilancio pubblico alla voce ‘entrate’.
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Il quadro macroeconomico del dopo Gheddafi non è dei più incoraggianti, risente fortemente della mancanza di stabilità nel paese e rischia di aggravarsi qualora alle elezioni svoltesi il 25 giugno 2014, e che hanno visto la vittoria dei ‘liberali’, non dovesse seguire una guida centrale sicura e coerente sia per le riforme istituzionali ed economiche, sia per il tesoro che si nasconde nel sottosuolo della Libia. Compito del governo, pertanto, attraverso la stabilità e la sicurezza, è anche quello di instaurare un business environment che sia attrattivo per gli investitori stranieri in modo da favorire un effettivo rilancio economico.
Il quadro macroeconomico – L’economia libica, secondo quanto accennato precedentemente, rientra nella casistica tipica del rentier state, cioè di un paese che trae pressoché tutto il proprio reddito dalla vendita a paesi stranieri delle risorse di cui dispone, di qualsiasi natura esse siano. La definizione, in maniera intuitiva, si applica perfettamente a quei paesi come la Libia, nello specifico membro dell’OPEC, definiti Stati petroliferi, che dispongono di una grossa quantità di petrolio.
Negli ultimi anni, in particolare dal 2011, il tasso di crescita del PIL ha subito delle fortissime oscillazioni, fenomeno inusuale per l’economia locale. L’ultimo dato disponibile, al gennaio 2014, vede un calo del PIL dello 12,06%, ma dalla crisi politica che ha gettato il paese nel caos si sono registrati anche bruschi cali del 52,5% e crescite del 104,37%. Non si può non tenere conto del fatto che questi deficit e surplus così importanti dipendono in maniera quasi esclusiva dall’interruzione e poi dalla ripresa delle esportazioni di greggio. È evidente, quindi, che un approfondimento della situazione economica della Libia finisce per essere un approfondimento della situazione del settore energetico di questo paese.
Photo by: David Wright – CC BY 2.0
È giusto ricordare, poi, che gli indicatori economici più importanti come l’inflazione, la disoccupazione, ma anche la bilancia dei pagamenti, non sono dalla parte della Libia in questo momento. È pur vero che dallo scoppio della crisi nel paese i governi che si sono succeduti hanno puntato molto alla realizzazione di programmi di sostegno ed assistenza alla cittadinanza, ma che questo aumento della spesa pubblica ha ulteriormente aggravato il debito di un paese la cui produzione (energetica prima di ogni altra cosa) si è fermata.
Il tesoro nel sottosuolo: risorsa o limite? – La Libia che dovrà nascere non potrà sicuramente prescindere da ciò che le ha permesso, durante il regime di Gheddafi, di affermarsi come potenza del continente africano, ovvero le risorse minerarie presenti nel sottosuolo. I dati pubblicati su BP Statistical Review of World Energy descrivono la Libia come il paese detentore della più alta quantità di riserve di petrolio in tutta l’Africa e il quarto per ciò che riguarda il gas naturale. I dati parlano chiaro, tanto che sembrerebbe non esserci, per il momento, altra prospettiva per l’economia del paese se non quella di una crescita ancora orientata alla produzione e al commercio di idrocarburi (ancora nel 2012 il 95% dell’export nazionale era costituito da petrolio e gas).
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Tuttavia, la sfida del governo libico consisterà anche in una diversificazione dell’economia del paese, eccessivamente dipendente dalle fortune del settore energetico, condizione sicuramente necessaria ma non sufficiente per una crescita sostenibile, quindi duratura e di cui potranno beneficiare tutti i cittadini libici oltre che lo Stato. Gli sforzi profusi in questo senso sia da Gheddafi che dai governi succeduti alla caduta del leader assassinato nell’ottobre 2011 sono risultati, però, vani.
Photo by David Neubert – CC BY 2.0
La produzione di petrolio ha subito uno stop importante nel 2011, con lo scoppio della guerra civile, quando la Libia è passata dal produrre 1,66 milioni di barili al giorno al produrne solamente 0,48. Il dato è ancora più sconcertante se si considera che nel 2010 circa 1,5 milioni di barili di greggio venivano esportati. La perdita netta per le casse statali è stata ingente, tuttavia essa è stata parzialmente recuperata nell’anno successivo, il 2012, quando, in occasione della cessazione della maggior parte delle ostilità, la produzione è tornata a salire fin quasi a livelli pre-bellici. Nel corso del 2013, però, si è registrata un’ennesima brusca interruzione della produzione molto simile, per entità, a quella del 2011.
La ragione di queste disruptions risiede principalmente nella collocazione geografica dei giacimenti petroliferi del paese e degli impianti di lavorazione. La maggior parte dei giacimenti, infatti, si trova nell’est del paese, in Cirenaica o nelle sue prossimità, la regione della Libia dove la tensione sembra raggiunge i livelli massimi. In tale contesto, dove le proteste hanno portato alla chiusura dei porti di carico, dei giacimenti stessi e degli oleodotti, dove quindi non è stato possibile materialmente garantire la sicurezza della produzione di petrolio, la Libia ha pagato a suon di miliardi di dollari lo scotto del proprio scenario politico interno.
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Ma questi problemi, sia nel 2011 che nel 2013, hanno riguardato anche i giacimenti nell’ovest del paese, quelli di El Shahara (chiuso più di una volta tra l’estate e l’autunno del 2013) ed El Feel. I miliziani di Zintan, molto influenti nell’area, hanno impedito il regolare funzionamento dei giacimenti e degli impianti di pompaggio e stoccaggio di Mellitah allo scopo di rinegoziare a condizioni migliori i contratti di vendita del petrolio raffinato. Le forti spaccature tra le diverse aree del paese avevano lasciato perfino pensare che si potesse operare una divisione della compagnia nazionale del petrolio, la National Oil Corporation (NOC), in modo tale che essa potesse operare attraverso due società, di cui una con sede in Cirenaica e dedicata alle attività di raffinazione e all’industria petrolchimica.
Una tale situazione, come è facile intuire, non colpisce esclusivamente le finanze del paese, e la possibilità di sostenere economicamente i piani di intervento in materia sociale, ma anche i rapporti con le grandi compagnie straniere che operano da anni in Libia e con i paesi stranieri stessi. Nel 2013 il ministro del petrolio al Arousi aveva paventato la possibilità che i contratti petroliferi potessero essere rivisti perché stipulati contro l’interesse nazionale e quindi con un vantaggio eccessivo per i contractors stranieri. Le compagnie straniere, quindi, già preoccupate per l’instabilità del quadro politico, hanno cominciato ad agire in maniera più cauta.
Photo by Lindsey G – CC BY 2.0
Al momento le cose non sembrano aver preso la piega sperata. In giugno il primo ministro Al Thani aveva annunciato che il governo era tornato in possesso dei terminali di Ras Lanuf ed Es Seder, nel golfo della Sirte, ma a due mesi da quell’annuncio la produzione è rimasta bloccata. La NOC ha annunciato che la ripresa degli scontri (in particolare quelli di Tripoli) ha lasciato inalterata la produzione di petrolio e le compagnie straniere, dalla Total, all’Eni e alla Repsol, hanno fatto evacuare i loro staff. Per paesi come l’Italia e la Spagna, fortemente dipendenti dalle importazioni di energia, la situazione libica assume un’importanza fondamentale, anche alla luce di altre crisi che si aprono in aree rilevanti per i propri approvvigionamenti energetici (vedi Ucraina, dove comunque la preoccupazione maggiore riguarda le forniture di gas).
È per questa serie di ragioni che la diversificazione dell’economia nazionale, seppure importante, non sembra essere una questione di importanza paragonabile a quella del ritorno dell’estrazione di greggio e della sua lavorazione a livelli pre-bellici. Come visto con gli episodi avvenuti negli anni e nei mesi precedenti, però, risulta ancora più essenziale la restaurazione di un clima che assicuri a questa attività produttiva l’ambiente ideale di proliferazione. Finché il quadro politico interno resterà così dilaniato da spaccature, la Libia potrà dire di disporre sì di un grande tesoro nel proprio sottosuolo, ma non potrà ricavarne i frutti come potrebbe.
Il discorso, ovviamente, è valido anche per la produzione e il commercio internazionale di gas naturale. Sebbene quantitativamente meno importante per l’economia libica, il gas del paese potrebbe essere fondamentale, così come quello dell’intera area mediterranea, per il superamento del problema della sicurezza energetica degli acquirenti della sponda nord del Mediterraneo come l’Italia. Si tenga conto del fatto, però, che nel 2012, ad esempio, la Libia ha esportato meno gas degli anni precedenti, e che l’unico compratore di GNL libico è stata l’Italia.
Per una serie di attori internazionali, sia gli Stati sovrani che le compagnie internazionali degli idrocarburi, e per la Libia, cioè per le casse dello Stato e quindi per i cittadini libici, è bene che il paese nei prossimi mesi e nei prossimi anni vinca la battaglia contro l’instabilità.
Francesco Angelone
(Mediterranean Affairs – Editorial board)
Immagine in evidenza: photo by thierry gregorius – CC BY 2.0