Ho trovato le dichiarazioni sull’epidemia di ebola di Monsignor Nunzio Galantino, segretario della Cei e vescovo di Cassano allo Jonio veramente forti e le sottoscrivo totalmente. Il prelato, in sostanza, si augura che le cure alle quali sono sottoposti gli occidentali che hanno contratto il virus, cioè i due americani e lo spagnolo, siano presto disponibili anche per gli africani che ne sono stati colpiti e che, probabilmente, contrarranno il virus nel prossimo futuro.
Monsignor Galantino non è certo ingenuo e sa bene che ciò non avverrà. Ha voluto fare una dichiarazione provocatoria tanto è vero che ha aggiunto che l’opinione pubblica internazionale sembra essersi accorta dell’epidemia quando questa ha cominciato a colpire anche i non-africani. “Tutto questo è un po’ umiliante” – ha detto il vescovo – “è un po’ vergognoso. L’Africa finora è stata un luogo da razziare, un luogo da umiliare, un luogo da corrompere, un luogo da trasformare in discarica”.
Le dichiarazioni di Monsignor Galantino mi ricordano quelle di Bertold Brecht quando diceva che la tubercolosi (ai tempi una malattia che falcidiava Europa e NordAmerica e per la quale non c’erano cure) era una malattia selettiva per classe sociale, cioè colpiva prevalentemente i poveri perché non avevano abitazioni adeguate, dormivano in tuguri umidi, si nutrivano male e lavoravano in condizioni disumane.
Anche Bertold Brecht non era ingenuo sapeva bene che la sua era una estremizzazione ma sapeva anche bene che conteneva molta verità. Per ebola si potrebbero dire le stesse cose: paesi come la Guinea, la Sierra Leone, la Liberia non hanno sistemi sanitari. Quel poco che c’era è stato distrutto da anni di saccheggio di materie prime, di petrolio, di diamanti da multinazionali che non hanno disdegnato di gettare questi paesi in infinite e crudeli guerre civili. In questi paesi (e in quasi tutta l’Africa) è praticamente impossibile curare chi viene colpito dal virus perché è impossibile creare quelle condizioni di sterilità e isolamento che la terapia necessità.
Se il virus colpisse città come Lagos, come Port Harcourt, come Benin City in Nigeria la diffusione sarebbe infrenabile perché i poveri si ammassano su mezzi pubblici, si accalcano in slum senza latrine, senza fogne, senza acqua potabile. Se il virus colpisse Milano, Roma, Francoforte, Londra…invece scatterebbe un piano di isolamento, di cordoni sanitari, gli ospedali sarebbe allertati per creare locali isolati, sarebbero riforniti di flebo per infusione, di strumenti usa e getta, di personale specializzato e di farmaci sperimentali come quel siero che è stato usato sui due americani.
Insomma gli africani (i poveri) non possono vincere. Infatti la partita dei “morti” per ebola non ha storia: si sta ancora giocando e il punteggio è di quasi mille a tre e quasi sicuramente il distacco aumenterà.