L’anno successivo a un’elezione presidenziale tende ad essere abbastanza noioso, elettoralmente parlando. Certo, gli appassionati scoveranno sempre delle primarie o delle elezioni speciali per divertirsi a predire l’andamento delle midterm dell’anno successivo, ma generalmente è materia di poco interesse per il pubblico più ampio. Con una importante eccezione: le primarie delle comunali di New York.
Se è vero che i tempi in cui il seggio di sindaco era conteso tra democratici e repubblicani sono lontani, la corsa ha riscattato la sua banalità spostando l’attenzione sulle primarie del partito (quasi) sicuramente vincitore dell’elezione, che si terranno il 22 giugno. In città infatti (fatta eccezione per Staten Island) la stragrande maggioranza degli elettori vota democratico. Nelle scorse due tornate comunali, il candidato repubblicano non ha raggiunto nemmeno il 30% dei consensi.
Per non parlare dei risultati delle ultime presidenziali, dove Trump è riuscito a sorpassare il 25% solo a Queens (di nuovo, fatta eccezione per Staten Island), pure a fronte di un allargamento del suo consenso presso i latinos.
Perché è importante?
A dispetto della retorica politica nazionale, la “democraticità” newyorkese non è monolitica: al suo interno troviamo rappresentate tutte le categorie che costellano l’elettorato del Partito Democratico odierno. Si va dai giovani radicali agli afroamericani di classe media nel sudest di Queens, dai latinos di Jackson Heights e South Bronx ai liberal “classici” di Greenwich Village e Upper West Side, dagli hipster-creativi progressisti di Williamsburg e Carroll Gardens ai lavoratori sindacalizzati, dagli immigrati di nuova generazione agli asiatici di Flushing per arrivare agli italoamericani di Bensonhurst.
Ed è proprio qui la chiave per comprendere la rilevanza di queste primarie. Chiamando in causa ogni gruppo demografico “democratico”, si hanno delle indicazioni molto importanti sull’orientamento prevalente nel partito. E, soprattutto, sulla direzione in cui questo si muove e si muoverà prossimamente. Le primarie a New York, quindi, offrono una validissima indicazione sull’andamento del partito a livello nazionale.
Il sistema elettorale
Si è già detto nel precedente articolo del maggiore fattore di novità di questa tornata: il sistema elettorale. Dal classico maggioritario semplice all’anglosassone si è passati a un maggioritario ranked-choice. L’elettore avrà a disposizione 5 scelte, e dovrà ordinare i propri candidati in ordine di preferenza. Se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta al primo turno (50%+1), si procede ad eliminare il candidato con meno prime preferenze e i suoi voti vengono redistribuiti in base alle seconde preferenze. E così via, finché qualcuno non ottiene la maggioranza assoluta.
Gli incentivi del nuovo sistema elettorale
Il senso di provare questo sistema va visto dal lato di incentivi nuovi soprattutto dal lato dell’offerta politica. In tal modo, è difficile fare come in passato e vincere grazie al grande supporto di un “gruppo” monolitico, come ad esempio possono essere i lavoratori sindacalizzati. Ora, la missione è costruire grandi coalizioni elettorali concentrandosi su messaggi meno “settari” e sulla conquista di più gruppi demografici allo stesso tempo. Così abbiamo visto di recente Andrew Yang fare campagna tra gli ebrei ortodossi e allo stesso tempo difendere la figura di Cristoforo Colombo, molto importante per gli italoamericani, il tutto pregando assieme ai membri della comunità asiatica.
Un’altra conseguenza, nota il New York Times, è che per vincere (forse) basterebbe essere secondi nelle preferenze. Infatti è possibile che nelle fasi successive all’eliminazione di candidati “minori”, la redistribuzione di voti porti vantaggi a chi non era primo al primo conteggio, mescolando e rimescolando i risultati. La verità è che nessuno ha esperienza di questo sistema elettorale, e ciò rende ogni possibile scenario allo stesso tempo probabile e improbabile. Al punto tale che la maggior parte dei grandi istituti sondaggistici si rifiutano di analizzare la corsa.
Le issues
Pochi luoghi al mondo sono stati più colpiti dal coronavirus come New York, ed è inevitabile che questa esperienza traumatica sia centrale nel discorso politico. Le modalità di ripartenza sono alcuni dei temi più dibattuti. E quindi, mantenere o meno molte strade chiuse al traffico prolungando il programma Open Streets? Incentivare o eliminare i numerosissimi dehors di bar e ristoranti che eliminano migliaia di posti auto? Come far ripartire il sistema scolastico? In che modo convincere chi si è trasferito fuori città a tornare? Come far ripartire il mondo dell’arte? Che fare degli uffici sfitti a Midtown?
Il problema del tasso di criminalità
Ma un altro tema ha preso un posto di primo piano. Si tratta di un fenomeno che sembrava ormai superato: il crimine. Per decenni, la città è stata simbolo di violenza, omicidi e insicurezza, tanto che nell’immaginario comune l’idea di una New York pericolosa è molto presente. Poi, a partire dai primi anni Novanta, un calo quasi incontrastato continuato fino ai minimi storici di pochi anni fa. Poi è arrivato il 2020. In tutta la nazione si è assistito a un aumento notevole di violenza durante e dopo la fase più acuta dell’emergenza pandemica. Non è questa la sede di dibattere quali siano le cause dirette e indirette, ma sta di fatto che a maggio 2021 le sparatorie a New York sono aumentate del 73% rispetto al maggio precedente.
Recenti episodi di violenza randomica nella metropolitana non migliorano la percezione di sicurezza dei cittadini, e di certo non aiutano il ritorno ad usare i trasporti pubblici, che attualmente vedono un calo di passeggeri superiore al 50% rispetto al 2019. Non fraintendiamoci: New York resta una città molto sicura, neanche lontanamente confrontabile con quella degli anni ’70 e ’80. Ma l’inversione di tendenza è percepita in maniera trasversale, e desta molta preoccupazione. Allo stesso tempo, gli attivisti di sinistra sostengono tagli alla Polizia, creando un terreno veramente difficile in cui muoversi.
Ma la pandemia ha (ri)aperto anche altre faglie. Le strade vuote di Midtown hanno reso più evidente la crisi dei senzatetto, nonostante le statistiche cittadine mostrino un calo del loro numero. Inoltre, si ripresenta l’annoso (ed enorme) problema del prezzo degli immobili, solo leggermente mitigato dalla fuga di molti newyorkesi verso i sobborghi in cerca di abitazioni più spaziose durante il lockdown. Un altro tema su cui tutti sono d’accordo è l’impopolarità dell’attuale amministrazione comunale, con De Blasio che viene attaccato da tutti i fronti.
I candidati
I candidati maggiori sono ben 8. Vediamoli brevemente.
Andrew Yang
Partiamo dal nome più noto. Yang è stato infatti candidato alle presidenziali 2020, e si era distinto per aver corso sulla promessa di fornire un reddito di base per ogni americano, indipendentemente dalla situazione finanziaria. Newyorkese di nascita, Yang si è fatto strada come imprenditore nella Silicon Valley. La sua ricetta per la ripartenza? Riportare i turisti in città.
Mescolando idee originali, una campagna on the ground nonostante la pandemia e la riconoscibilità del nome, è stato il frontrunner per molto tempo. Ora non più. I suoi avversari hanno puntato il dito sulla sua mancata partecipazione politica (non ha mai votato alle comunali), oltre al fatto di non essere più “puramente” newyorkese dopo essersi trasferito in California. Ora, almeno stando ai sondaggi, la vittoria sembra più distante.
Eric Adams
Classe 1961, è Presidente del Borough di Brooklyn dal 2013. Da ex poliziotto, non è un caso che sia uno dei candidati più moderati riguardo al policing, opponendosi alle voci che chiedono di tagliare i finanziamenti alla Polizia. Da un punto di vista di campagna elettorale, la nuova emergenza-crimine cade a pennello per una retorica securitaria.
La sua storia è quella di un ragazzo povero di Queens, picchiato dalla Polizia e per questo motivo entrato nella NYPD, allo scopo di migliorare l’istituzione dall’interno. Nel corso degli anni ha mantenuto un comportamento “ribelle”, pur rientrando ideologicamente nell’area moderata. Spera che la sua autenticità faccia breccia. Al momento sembra funzionare: nei sondaggi si classifica nelle prime tre posizioni.
Kathryn Garcia
Eccoci al candidato che da questa parte dell’oceano chiameremmo “tecnico”. Ex direttrice del Sanitation Department, non è una politica. Ma è quella che conosce alla perfezione il funzionamento della macchina burocratico-amministrativa della città. Punta molto sulla sua esperienza, anche se ha avuto non pochi problemi a farsi conoscere dagli elettori.
Mancando di carisma, è stato più difficile farsi notare pur avendo un curriculum di tutto rispetto. Infatti, è riuscita ad arrivare al vertice delle preferenze nei sondaggi solo di recente. La sua proposta per la ripartenza: asili gratis, attenzione per le fasce deboli, supporto a cultura, ristoranti e arte.
Shaun Donovan
Donovan è un altro veterano del public service. Ex membro dell’amministrazione Obama, e funzionario cittadino sotto Bloomberg, cerca come Garcia di proiettare un’aura di competenza mista a progressismo. Nonostante notevoli spese, non è riuscito a sfondare nei sondaggi, e si ritrova costantemente all’inseguimento dei primi tre. Il suo background privilegiato getta un’ombra sulle sue proposte per ridurre le diseguaglianze, tema su cui si è battuto anche durante il suo mandato di Segretario alla casa e allo sviluppo urbano. E su cui, promette, si continuerà a battere da sindaco nel post-Covid.
Scott Stringer
Stringer è un altro volto conosciuto nella politica cittadina, e per buona parte di questa campagna si è guadagnato il favore dei principali movimenti di sinistra, tra cui il Working Families Party. Insiste anche lui sulle sue capacità di city manager per rilanciare la città ripercorrendo la strada laddove l’amministrazione De Blasio ha sbagliato. Ma ora la sua campagna è in grande difficoltà a causa di accuse di molestie da parte di due donne. Secondo i sondaggi, si mantiene sul 10% dei consensi.
Ray McGuire
Un candidato che non è mai stato parte di uffici pubblici è McGuire. Ex vice di Citigroup, punta tutto sulla sua storia personale. Cresciuto in una famiglia povera di Dayton, Ohio, è riuscito da solo a scalare la vetta del mondo finanziario newyorkese.
Nonostante un video di lancio fatto da Spike Lee, la mancanza di una solida campagna on the ground non gli ha permesso di stabilire una connessione forte con l’elettorato. Chi lo sostiene pienamente, invece, sono le istituzioni finanziarie di Wall Street, che continuano a donare milioni di dollari sperando fino all’ultimo in un balzo di popolarità. Tra le sue proposte, finanziamenti alle piccole attività per creare 500mila nuovi posti di lavoro.
Maya Wiley
Della lenta caduta di Stringer sembra beneficiare Maya Wiley, ex avvocata per i diritti civili e nuova eroina dei progressisti. Le sue promesse sono ambiziose: tagliare un miliardo di dollari dal bilancio della Polizia, e parallelamente inaugurare un programma stile New Deal da 10 miliardi di dollari destinati a lavori di manutenzione e costruzione di infrastrutture.
Ma il vero battesimo come candidata “della sinistra” è arrivato con il sostegno di Alexandria Ocasio-Cortez, l’icona del progressismo americano e rappresentante di un distretto a cavallo tra Bronx e Queens. L’annuncio, avvenuto con sorpresa della stessa Wiley, cementa la sua posizione “a sinistra” dell’establishment politico cittadino, ben rappresentato in queste primarie.
Dianne Morales
Storia travagliata per la terza donna nella corsa. Nativa di Bedford-Stuyvesant, storico quartiere nero di Brooklyn, è stata a capo di numerose no-profit. Si è dipinta come la sindaca attivista della porta accanto. Ed effettivamente le sue sono le idee più radicali: trasformare completamente il bilancio cittadino tagliando fondi alla Polizia (almeno 3 miliardi), istituendo una moratoria sugli affitti, sostenendo le piccole attività e più in generale inaugurando una care economy fatta di attenzione ai più vulnerabili. Non fosse che la sua campagna si è avvicinata all’implosione, a causa di accuse di trattamenti razzisti, molestie e tentativi (soffocati) di sindacalizzazione.
Ma quindi?
Le primarie si terranno il 22 giugno, ma la notte stessa non ci sarà nessun vincitore. Anzi. La commissione elettorale ha annunciato che ci vorrà molto tempo per avere i risultati. Forse non prima di luglio. Nel frattempo, i sondaggi sono solo parzialmente d’aiuto. Parzialmente, perché prevedere le tornate di eliminazione e le seconde (e terze, e quarte, e quinte) preferenze sono molto difficili da redistribuire. La partita, quindi, è aperta per tutti. Lo scenario probabile è che nelle tornate di eliminazione si creino due fazioni: un candidato moderato dominante e un candidato progressista. Dalla vittoria di una o dell’altra fazione può dipendere la sorte del partito (e del Paese).