E così, tra retroscena e piani segreti del Governo, motori scaldati per il confronto-scontro sulle riforme e sulla legge elettorale, annunciate battaglie sull’articolo 18 e sull’economia, si consuma un altro scampolo di estate politica. I riflettori accesi sono molti, ma l’indigestione di luce rischia di offuscare un terreno di gioco delicato, su cui si gioca una partita ancora più delicata, dalle conseguenze non prevedibili.
Il casus belli è la fecondazione eterologa. La legge n. 40/2004 aveva proibito del tutto quell’ipotesi (l’intento del legislatore era stato chiaro dall’inizio); la Corte costituzionale, con la sentenza n. 162/2014, pubblicata il 10 giugno – ma il dispositivo era del 9 aprile – ha demolito quel divieto, nei soli casi in cui una malattia abbia causato la sterilità o l’infertilità assolute e definitive. Per la Corte, vietare la pratica incideva irragionevolmente sulla libertà di autodeterminarsi sul piano personale e familiare e sul diritto alla salute (intesa anche come salute psichica), senza che il divieto fosse l’unico mezzo per tutelare altri valori costituzionali (a partire dagli interessi del concepito).
Si tratta dell’ennesimo colpo inferto alla legge 40 – una legge che, per molti tecnici, era nata nel peggiore dei modi, anche solo per il clima di tensione in cui era stata concepita – ma rischia di essere il più pericoloso, sul piano concettuale e politico. Lo ha mostrato il ministro Beatrice Lorenzin, che prima aveva promesso un intervento rapido del governo per regolare la fecondazione eterologa, poi – il 9 agosto – aveva fatto sapere che il Governo all’unanimità (lei compresa evidentemente) aveva preferito che a dettare le regole fosse una legge, nata da “un’iniziativa legislativa parlamentare”. Non dell’esecutivo dunque.
Il procedimento, in ogni caso, avrebbe tempi lunghi: nel frattempo, che si fa? Dal ministero si era fatto capire chiaramente che, nell’attesa di nuove regole, non sarebbe stata consentita la fecondazione eterologa. Il 10 giugno, però, sono arrivate come un macigno le parole di Giuseppe Tesauro, presidente della Corte costituzionale e redattore della sentenza n. 162: “I centri di fecondazione assistita autorizzati possono praticare già ora l’eterologa, purché rispettino tutti quei paletti” posti per le altre forme di procreazione medicalmente assistita dalla legge 40, nonché gli altri meccanismi di controllo pubblico.
Tutto chiarito? Per niente. Alcune regioni erano pronte a erogare quella prestazione prima espressamente vietata, ma è arrivato subito l’altolà della Lorenzin: dopo la sentenza della Consulta ci sarebbe un “vuoto normativo” che non consentirebbe di effettuare la fecondazione con gameti esterni alla coppia; occorre regolare alcuni aspetti chiave, come il numero delle donazioni di gameti (sottolineato dallo stesso Tesauro), il recepimento della direttiva europea sui test genetici dei donatori e la tracciabilità dei gameti, oltre a questioni in bilico tra salute, sicurezza e riservatezza.
Intanto però alcuni tribunali hanno ritenuto legittimo il ricorso alla fecondazione eterologa e la confusione aumenta. Il vuoto normativo c’è oppure no? Qualche lacuna esiste – lo ha fatto capire, come si è visto, lo stesso presidente della Corte – ed è bene colmarla al più presto; dire però che la mancanza è tale da paralizzare l’istituto, è scorretto. Una cornice indubbiamente c’è, nemmeno sottile: è il resto della legge 40 e, in quanto compatibile, la disciplina della donazione di tessuti e cellule. Certamente non è un quadro fatto per durare: quel tessuto normativo può reggere in via transitoria, ma non si presta a essere applicato su larga scala e per lungo tempo. Risolvere il problema, tuttavia, spetta alla responsabilità del Parlamento, non si può incolpare la Corte costituzionale.
Anzi, non è escluso che la Consulta abbia scelto di dichiarare l’incostituzionalità “secca” del divieto di fecondazione eterologa (senza adottare soluzioni transitorie) proprio per evitare determinate situazioni spiacevoli ma prevedibili. Il disegno di legge in materia, infatti, avrà una data di nascita, ma sul suo destino nessuno potrebbe avere certezze. Perché su questo tema, come su altre questioni etiche, potrebbe vacillare il governo Renzi e la stessa legislatura.
Basti considerare due questioni: da una parte, la titolare del ministero della Salute appartiene allo stesso partito di soggetti che in campo bioetico hanno assunto posizioni nettamente pro-life e decisamente poco laiche. Facile, in questa chiave, ricordare le prese di posizione di nomi di primo piano del Nuovo centrodestra come Maurizio Sacconi, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi e soprattutto Eugenia Roccella (che ha insistito sui “buoni risultati” della legge 40). Difficile che la loro voce possa essere messa elegantemente da parte o abbia poco rilievo all’interno della discussione che si aprirà.
Una discussione che, si diceva, potrebbe avere tempi in(de)finiti. In Parlamento rischia concretamente di riproporsi un gioco di schieramenti trasversali, che unisca in particolare deputati e senatori pro-life a molti cattolici di varia natura presenti nei vari partiti. A cominciare ovviamente dal Pd, sul cui comportamento in sede di voto nessuno potrebbe esprimere certezze. Una configurazione simile potrebbe allungare di molto i tempi dell’iter parlamentare e non è escluso che nascano scontri potenzialmente letali per la maggioranza, specie se abbinati ad altri possibili motivi di tensione (e di germi ce ne sono già in abbondanza). Più che un vuoto normativo, un vuoto a perdere per Renzi.
Così, però, la fecondazione eterologa rimarrebbe a lungo senza una normativa ad hoc: a dar retta al ministero, essa resterebbe “non consentita fino a nuove regole”. Si prolungherebbe, dunque, la situazione di irragionevolezza denunciata dalla Corte costituzionale, in base alla quale le coppie sterili prive di risorse sono discriminate rispetto a quelle abbastanza agiate da poter ricevere il trattamento all’estero. Uno stato irragionevole che la Consulta ha voluto bloccare.
La disfida del vuoto normativo, in ogni caso, dev’essere risolta quanto prima: se si protraesse, le conseguenze potrebbero essere imprevedibili. Anche qui, guardare al passato è decisamente utile. Tra il 15 e il 28 luglio 1976, secondo molti, nacquero le radio libere: la Corte costituzionale con la sentenza n. 202 aveva smantellato un altro pezzo di monopolio statale (della Rai dunque), sostenendo che su scala locale c’erano abbastanza frequenze per garantire le iniziative dei privati. In quel caso, però, la Consulta specificò chiaramente che il Parlamento avrebbe dovuto regolare la materia dell’emittenza radiotelevisiva locale, anche per evitare concentrazioni di risorse e rischi di monopolio.
Stando alla sentenza della Corte, c’era “il permesso di trasmettere e il divieto di parlare”, per parafrasare Canzone per l’estate di De André e De Gregori: il diritto a usare localmente il mezzo radiotelevisivo c’era, ma era condizionato all’attività delle Camere e, senza una legge sulla materia, non poteva essere esercitato, era come congelato. Alla Rai questo “vuoto normativo” faceva comodo e, inutile negarlo, anche a chi governava: anche per questo, la legge non arrivò nel 1976 e nemmeno negli anni successivi.
Nonostante questo, radio e tv libere spuntarono come funghi in tutta l’Italia: per loro solo il legislatore poteva limitare le trasmissioni locali, ma il diritto all’antenna era immediato. Niente vuoto, insomma, o comunque nessun blocco: più di un giudice tutelò un diritto che per la Consulta non era ancora azionabile. In questo stato di incertezza, alcuni imprenditori tentarono di andare oltre, creando una televisione privata nazionale anche se le norme non lo prevedevano: il più fortunato di loro si chiamava Silvio Berlusconi. Alla base della televisione generalista degli ultimi trent’anni (e, se si vuole, della politica italiana degli ultimi venti) c’è dunque un conflitto su un “vuoto normativo”: nessuno, all’epoca, ne avrebbe immaginato gli effetti a così lunga distanza.