Affidamento: quel veleno chiamato alienazione parentale
Parlare oggi di alienazione parentale sembra essere diventato impossibile; a meno che non si scelga per forza una delle due vie maestre contrapposte che vedono: di qua, la diagnosi medica che etichetta il tutto come sindrome e ne fa quindi un gruppetto variegato di sintomi associabili ad essa ma anche ad altro; di là, la sentenza comune e inappellabile che dice che l’alienazione parentale non esiste.
Eppure una strada di mezzo c’è; contro ogni aspettativa, è la strada più semplice e peraltro già abbondantemente battuta.
Proviamo per un attimo a staccarci dalla terminologia infelice e se vogliamo anche un po’ strumentale con cui si denomina questo spauracchio pedagogico; quindi, caliamolo nella vita di tutti i giorni; in esempi di condotte abituali facilmente riscontrabili e purtroppo frequentemente catalogate come situazioni di scarsa rilevanza educativa.
Affidamento: comunicazione paradossale
Poniamo la seguente situazione: il bambino è a casa del papà. La mamma lo chiama per salutarlo e per sapere come sta e nel corso della telefonata gli chiede del tutto innocentemente “ti manco?”. Dico del tutto innocentemente poiché la situazione è più che verosimile; presumibilmente è capitato a molte mamme o a molti papà di assistervi o di trovarvisi. La pedagogia chiama questo tipo di conversazione comunicazione paradossale poiché mette il bambino in una condizione di indecidibilità.
Ovvero: qualsiasi risposta lui dia alla domanda, sarà una risposta sbagliata.
È evidente che al bambino in quel momento la mamma non manchi affatto; altrimenti le avrebbe telefonato lui. Dunque, la sua risposta dovrebbe tranquillamente essere “no”; eppure difficilmente dirà la verità poiché la natura fuorviante della domanda porta con sé un sostrato emotivo a lui estremamente chiaro; cioè, che se dirà alla mamma che non gli manca, lei ci rimarrà male.
Una comunicazione di questo tipo ha principalmente due effetti, entrambi dannosi; il primo è che obbliga nei fatti il bambino a mentire e lo costringe a privilegiare il ragionamento funzionale a scapito del suo percepito emozionale (ti dico quello che è meglio dire e non ti dico quello che provo perché fare felice te è più importante di quello che sento io), con un conseguente e naturale senso di colpa dovuto al malessere di qualcosa che è andato storto (ho detto una bugia e le bugie non si dicono, eppure mi sembra che questa bugia abbia fatto felice la mamma) e alla confusione generata dal non aver assolutamente chiaro il perché.
Il secondo effetto altrettanto dannoso è che una comunicazione siffatta ribalta un assioma che per il bambino è inviolabile; se io sono felice, la mamma è felice; viceversa se io sono triste, la mamma è triste. Tutto crolla quando il bambino risponde di sì a quel “ti manco?”; poiché lo stato emotivo in cui sentiamo che qualcosa ci manca, è tutt’altro che uno stato emotivamente positivo; eppure la mamma ne è felice.
Affidamento: un altro “paradosso”
Poniamo un’altra situazione, anch’essa estremamente verosimile; il papà va a prendere il figlio a casa della mamma. La mamma esce imbronciata, non lo saluta, non lo guarda se non in cagnesco, abbraccia il bambino e dice: “fai il bravo e sii educato con papà”. Questo tipo di comunicazione è simile alla precedente con la sola differenza che il paradosso si innesca tra il dire e il fare.
E’ necessario tenere presente che per i bambini, il comportamento dei genitori è legge, non a caso emulano fuori dalle mura domestiche ciò che vedono fare a mamma e papà, sia nelle espressioni che nei modi di dire o di comportarsi. Un’affermazione di questo tipo getta il bambino in una condizione di disarmante insicurezza; se “sarà educato” e “farà il bravo” (entrambe le scelte linguistiche sono infelici, ma ahimè assai comuni, questo poiché entrambe hanno una connotazione del tutto soggettiva e mai oggettiva), di fatto sbaglierà poiché andrà contro quello che la mamma ha appena fatto. Viceversa se si comporterà come si è comportata la mamma, di fatto disobbedirà a quanto lei gli ha appena richiesto a parole, trovandosi anche in questo caso nella condizione di sbagliare.
Affidamento: dettagli innocui e distruttivi
Ecco che, una volta sviscerati questi presupposti, possiamo provare ad addentrarci un po’ di più in un’ulteriore situazione verosimile e purtroppo assai attuale; il papà sta per arrivare e il bambino dice che non vuole andare da lui. Sostenere a prescindere che questo tipo di richiesta rispecchi il reale stato emotivo del bambino è un approccio non solo superficiale, ma anche nei suoi confronti emotivamente disconfermante.
Il genitore competente è quello che immediatamente si chiede se per caso non abbia involontariamente dato un messaggio comunicativo contraddittorio. Qualche esempio: “quando si tratta di arrivare in orario, tuo padre proprio non ce la può fare” oppure “nei giorni in cui deve stare con te va a lavorare. Quello lavora sempre!”. Queste frasi all’apparenza magari non amorevoli ma tutto sommato innocue hanno in realtà un’immediata potenza distruttiva.
Esse costruiscono su una peculiarità non necessariamente negativa (pensiamo per esempio a quante volte, da innamorati, abbiamo trovato divertente il fatto che il partner fosse un ritardatario) o addirittura su un aspetto totalmente indipendente dal proprio volere (per quanto lavorare possa essere piacevole, sfido chiunque a dire che preferisce quello all’idea di passare del tempo al parco con il proprio figlio) una correlazione emotiva per cui il bambino sente immediatamente di non essere importante abbastanza da meritare un atteggiamento diverso.
Ora, un bambino che sa di non essere importante per un genitore, sarà inevitabilmente terrorizzato all’idea di poter non esserlo più neanche per l’altro e cercherà con le unghie e con i denti di ancorarsi a ciò che gli sembra più saldo.
Affidamento:il bambino sceglie di squalificare se stesso
Questi sono tutti esempi di atteggiamenti pedagogicamente distruttivi estremamente comuni e sottovalutati. Parlare di alienazione parentale è fuorviante nella misura in cui rende astratto e difficile da capire ciò che invece non è altro che un insieme di atteggiamenti di tutti i giorni, una modalità educativa fallimentare e potenzialmente squalificante per il bambino ma talmente comune da non essere quasi più visibile.
Il bambino, messo di fronte all’ipotesi di fare del male a un genitore, sceglierà sempre l’alternativa di squalificare se stesso e ciò che prova, con il conseguente rifiuto delle proprie emozioni e l’incapacità di costruire una propria immagine identitaria chiara e indipendente.
Affidamento: un padre disconfermato
Ed è fondamentale, in questo senso, un’ultima precisazione. È vero che le situazioni di cui sopra sono plausibili anche a ruoli invertiti, ma è necessario riconoscere che, per essere introiettata, una modalità educativa così dannosa necessita di essere reiterata e vissuta dal bambino per la maggior parte del suo tempo. Dunque il potere disconfermante di un padre che vede il figlio 6 giorni (o meno) al mese non potrà mai essere lo stesso rispetto a quello di una madre che lo vede 24 giorni.
Allo stesso modo, però, le possibilità di un padre disconfermato di vedersi riabilitato agli occhi del proprio bambino grazie alla quotidianità e al proprio agire intenzionale si riducono praticamente a zero se consideriamo la norma corrente che vuole questa suddivisione totalmente sbilanciata dei tempi di frequentazione.
Viene anche da questa constatazione, insieme alle altre, la presa d’atto della necessità che una riforma efficace nella materia delle separazioni e degli affidi dei minori non solo contenga dispositivi disincentivanti i comportamenti di alienazione parentale, ma stabilisca come principio di base, equilibratore e calmierante, la piena parità dei tempi di frequentazione di madre e padre (e della rispettiva cerchia parentale) da parte del fanciullo.
Silvia Marchi – Pedagogista