Il Cremlino contesta la condanna di Viktor Bout, il trafficante di morte. Storia di un mito criminale
Ha rifornito tutti, nemici dei nemici, alimentando scontri, guerre e violenze senza fine. Conflitti che si avvitavano su sé stessi in dogliose spire di morte. Un mostro degli affari illeciti, precursore di qualsiasi globalizzazione criminale. Il suo nome è Viktor Anatolyevich Bout, classe 1967, tagiko di nascita e post-sovietico di passaporto. Già capo del Kgb, è con la caduta del regime comunista che inizia la carriera di Bout, trafficante d’armi transnazionale, definito “il mercante di morte“, epiteto cucitogli addosso da Peter Hain, ex ministro degli Esteri britannico. Colto, raffinato, intelligente, ha trafficato armi dall’ex blocco comunista (specialmente Moldavia, Ucraina, Bulgaria) agli scenari di guerra di mezzo mondo: Angola, Liberia, Congo, fino ad armare le Farc colombiane e, si dice, al-Qaeda. Nel 2008, Viktor Bout venne arrestato in Thailandia ed estradato negli Stati Uniti due anni più tardi dove è stato condannato a 25 anni di carcere. Condanna confermata pochi giorni fa da una corte federale di New York e – udite udite – fortemente criticata dalla Russia.
Un personaggio da romanzo
Dopo l’implosione dell’impero sovietico tutte le armi stoccate dall’Armata Rossa per scatenare la terza guerra mondiale si sono trasformate in un lucroso business. Bout coglie l’occasione. Si trova in Angola, dove è in corso una guerra civile che nasconde gli interessi geopolitici di Stati Uniti ed Urss, e comprende in fretta i cambiamenti in corso nella politica internazionale. Acquista per pochi soldi i suoi primi aerei, due Antonov prossimi alla demolizione, e assolda ex-piloti russi disoccupati. Ufficialmente trasporta fiori, pollame surgelato, aspirapolveri, in realtà traffica armi. La sua compagnia area, Air Cess, apre quattro filiali in Africa. E’ grazie a lui che il kalashnikov Ak-47 diventa il principale prodotto d’esportazione dall’ex Urss.
[ad]Bout è abile a sfruttare la corruzione dei funzionari e aggira facilmente ogni divieto, ogni embargo. Le sue armi arrivano in Angola dove, nella sua generosità d’animo, non manca di rifornire entrambe le parti in conflitto. I suoi aerei trasportano in salvo l’allora dittatore zairese, Mobutu Sese Seko, mentre Ahmad Shah Massoud (poi premio Nobel per la pace) riceveva casse di proiettili paracadutate durante il conflitto contro i talebani afghani negli anni Novanta.
Secondo l’Onu sarebbe stato in affari con l’ex presidente liberiano Charles Taylor, che è in attesa di giudizio con l’accusa di crimini di guerra. Bout avrebbe fornito armi a Taylor, impegnato a destabilizzare la Sierra Leone, e in cambio avrebbe ricevuto diamanti.
Soprannominato “il Bill Gates dei traffici” (epiteto meno noto dell’attuale), Bout era al servizio del miglior offerente. E una volta, ad offrire di più, furono i francesi impegnati, nel 1994, nella guerra in Ruanda: fu quello il conflitto del più grande genocidio africano, dello scontro etnico tra Hutu e Tutsi, dei campi profughi pieni di genocidiari su cui versarono lacrime stolte le pubbliche opinioni occidentali. Insomma, fu quello il più grande affare di Bout che inondò di armi la regione dei Grandi Laghi facendo così la sua parte nella spirale di violenza che portò alle due guerre (dette “mondiali”) del Congo. Proprio nella Repubblica democratica del Congo rifornì miliziani, ribelli, esercito regolare, partecipando al traffico di risorse minerarie. Poi fu la volta dell’Iraq: anche qui c’era bisogno di far affluire armi per combattere i ba’athisti, prima, e i mullah sciiti poi. Gli Stati Uniti seppero sempre a chi rivolgersi. Certo, se Washington ha un difetto è quello di pretendere sempre l’esclusiva. Così, quando Bout si mise in affari con le Farc colombiane, la Dea americana gli si mise alle costole.
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