Riforma “Università e Ricerca”: quando la politica italiana si dimostra poco coraggiosa
Breve Premessa: ieri pomeriggio, su personale consiglio della Senatrice Magda Negri, mi sono recato a Palazzo Carignano (Torino) per assistere all’incontro con Ignazio Marino, durante la manifestazione Torino Spiritualità: tema del dibattito “Nelle mani del medico: Sanità, Fede, Etica e Diritti“. Da questo evento ho preso spunto per l’articolo che segue.
Come alcune delle lettrici e dei lettori che ci seguono, anche io durante gli anni di Università ho deciso di passare un anno all’estero tramite il progetto di scambio europeo Erasmus (in realtà, ho deciso di farne due di anni, non solo uno, ndr). Come ancora altri laureati italiani, ho deciso di conseguire il mio dottorato di ricerca (PhD) lontano dall’Italia, molto lontano. Ed infine, come molti dei miei colleghi, all’estero ci sono rimasto per proseguire la mia attività di ricercatore.
Le due domande che mi vengono poste più spesso sono 1) ti è mancata l’Italia? 2) pensi di tornare? Le mie risposte sono sempre state 1) no, mi sono mancati al limite familiari ed amici 2) dipende da cosa l’Italia mi offrirà.
Lavorare per la metà dello stipendio offerto in altri paesi lo considero un furto.
Qualunque persona in cerca di lavoro, sono certo, la penserà come me.
Quanti di voi si sono trovati nella mia stessa situazione? Penso molti, moltissimi. La successiva domanda allora che ci dovremmo porre, tutti quanti, è “Perché permettiamo che questo espatrio di ricercatrici/ricercatori continui impunemente? Quali misure la politica italiana intende adottare per risolvere il problema?”.
La recente Riforma del sistema Universitario, ufficialmente denominata “Disposizioni urgenti in materia di istruzione ed università”. Decreto-legge 1 settembre 2008, n. 137, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 204 del 1° settembre 2008, cela sin dal titolo l’inconsistenza generale del sistema politico italiano nel trattare la questione ricerca ed annessi. L’Università è la forma più alta d’istruzione, l’ultimo passo prima di entrare nel mondo del lavoro, e perciò distinguere Università ed Istruzione, piuttosto che Ricerca ed Istruzione è indicativo del malessere diffuso. Un malessere intellettuale e sociale che tocca profondamente il nostro paese, da sempre: lo si evince chiaramente da questo studio dell’Eurostat del 2008, ovvero quanto i paesi occidentali spendono in percentuale sul Prodotto Interno Lordo (PIL, GDP in inglese) in ricerca e sviluppo (Research and Development, R&D)
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[ad]La linea rossa è il traguardo richiesto dal Trattato di Lisbona: il 3%. L’Italia spende solo l’1,1% del proprio PIL. Una miseria. Il neo-presidente della UE José Barroso ha dichiarato più volte che il Trattato di Lisbona dovrà essere rispettato.
Arriviamo dunque al tema centrale dell’argomento:
perché in Italia la ricerca non viene pagata come negli altri paesi occidentali?
Se fossi un politico di professione vi avrei già raccontato mille storielle di come sia difficile trovare fondi, di come la politica (questo o quel partito poco importa, ndr) abbia sempre puntato sulla ricerca, sul valorizzare i propri laureati, sul rendere il sistema universitario efficiente. Ma io non sono un politico di professione, quindi non ho alcun interesse a MENTIRE. Come tutti voi, anche io devo pagare le bollette, anche io voglio comprarmi una casa e mettere su famiglia (no, in realtà non voglio mettere su famiglia, ma non importa) e vivere una vita decorosa, lavorando seriamente e con passione, perché quello che faccio amo farlo e non lo cambierei con nulla d’altro al mondo. In più io sono piemontese (di Torino, per la precisione), ed il chiacchericcio dei politici lo tollero giusto qualche minuto. Poi mi annoio e mi dedico ad altro di più produttivo.
Cosa c’è che non va nella ricerca in Italia? Andiamo per punti
1) Il sistema non è competitivo. Io ho toccato con mano due realtà diverse: il sistema anglosassone ed il sistema tedesco. Il primo punta a rendere le Università dei centri con forti finanziamenti privati, il secondo possiede una struttura statale efficiente che permette di rimanere sostanzialmente pubblico. Sono due sistemi che funzionano, e funzionano perché il mercato del lavoro di alto profilo è libero e competitivo, dove generalmente (anche lì vi sono le eccezioni, ma sono appunto, eccezioni, non la norma) chi è più bravo, intraprendente, sveglio, capace e reattivo ha maggiori opportunità di emergere. Usciti dall’Università in Italia, ogni studente viene lasciato solo con se stesso, senza una guida professionale, allo sbaraglio, alla mercè di un mondo estraneo, che ha poco tempo da perdere in ulteriore formazione.
“Lei ha esperienza?
La mia università non mi ha dato esperienza lavorativa.
Ah no? Allora non ci interessa”.
“Ma se non mi concede una chance, come faccio a farmi un’esperienza?”
“Mi spiace, così funziona qui da noi. Buona fortuna”
Le Università italiane sono incapaci di fornire collegamenti seri con il mondo del lavoro. Nelle università inglesi ed australiane, ogni dipartimento ha un ufficio preposto per i contatti con le aziende. E’ compito dello studente informarsi, certo. Tuttavia i mezzi potenziali te li concedono. Il mondo del lavoro italiano, poi, non investe in ricerca, perché considera questa forma come uno spreco di risorse finanziarie, non ha tempo da dedicare ad ulteriori formazioni professionali. O conosci già il mestiere, oppure cercano altro. E ti ritrovi in un call-center.
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[ad]2) Le raccomandazioni sono un cancro delle Università Italiane. In Italia, le Università sono spesso luoghi dove il posto fisso ottenuto per raccomandazioni esterne od interne, dove i cosiddetti BARONI che non producono da decenni, dove gli studenti vengono trattati più come un peso che come una risorsa, sono la regola quotidiana.
Alzi la mano chi di voi non conosce almeno un figlio di docente che insegna nella stessa Facoltà, magari nello stesso Dipartimento; chi non ha mai visto un bando di ricerca assegnato al figlio del nipote del cognato del rettore di turno.
Alzi la mano chi non ha visto sprecare le già poche risorse finanziarie per inutili convegni o strumentazioni carenti e vecchie.
Alzi la mano chi di voi non ha visto studenti superare esami difficili solo perché figli del nipote del cognato del docente di turno. Spiegatemi ora che differenza c’è se sei di destra o di sinistra: questi problemi sono universali, assoluti.
Destra e Sinistra non c’entrano nulla: siamo tutti sulla stessa barca. Che affonda vertiginosamente. Prima lo capiamo, tutti, prima risolviamo il problema.
3) La politica italiana considera la ricerca universitaria inutile. Non badate solo ai programmi elettorali, laddove si possono scrivere tutte le promesse possibili ed immaginabili. Guardate i fatti, solo quelli contano, almeno per me. Quanto viene pagato un assegnista, quanto viene pagato un ricercatore precario, quanto viene pagato un dottorando? Un assegno di ricerca va da un minimo di 16000€ ad un massimo di 19000€ l’anno. Pensate che questi stipendi siano in linea con gli stipendi degli altri paesi occidentali? A questo punto, tanto varrebbe andare a lavorare in un ufficio o in fabbrica, senza dedicare 15 anni della propria vita a studiare. Cosa ha fatto la politica italiana, che sia di centrodestra o centrosinistra poco cambia? La risposta è tristemente univoca: NULLA. I politici italiani, almeno la grandissima parte, ritiene che lo sviluppo di un paese, la tecnologia, le nuove frontiere della scienza e della medicina, dell’ingegneria e dell’economia siano regali di Natale, che giungono da sè, senza investire, senza impegnarsi. Lo sviluppo tecnologico ha un prezzo, solo gli stolti possono pensare che sia gratuito. Già Mussolini considerò l’invenzione del radar da parte di Marconi inutile, ed infatti si trovò a perdere la battaglia in Grecia. Marconi fece fortuna col radar oltre oceano. Come vedete, è un problema storico di noi italiani, non solo di questa particolare classe politica.
Ignazio Marino ieri pomeriggio raccontò di un fatto che ha del clamoroso: all’ultimo bando di concorso per finanziare le migliori proposte di ricerca in Italia (1700 domande, una trentina i vincitori), la prima classificata fu una ricercatrice di 33 anni, abruzzese, che propose un’innovativa ricerca sulle malattie degenerative. Riceverà ora i fondi statali per continuare in questo fondamentale studio. Dove sta il paradosso? Il suo professore universitario l’anno prima le disse di NON presentare il progetto perché INUTILE. Questo è lo stato in cui ci troviamo.
Una delle più comuni critiche che riceviamo noi ricercatori è:
solo perché avete studiato più di un operaio pensate che dobbiate guadagnare di più. Il mondo del lavoro richiede tanta pratica e quella non la impari solo sui libri. Dovete fare la gavetta come tutti quanti. Siete presuntuosi nelle vostre richieste.
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[ad]Alzi la mano chi non ha mai sentito questa critica. Io ho enorme rispetto per chi ha lavorato da quando ha 14-15 anni: i miei genitori sono nati a ridosso della Guerra, ed hanno dovuto come molti dei vostri genitori iniziare a lavorare subito poiché lo studio era un privilegio per pochi. Però i miei genitori hanno sempre affermato che se avessero potuto, avrebbero voluto studiare di più, perché la mancanza di conoscenze non ha permesso loro di progredire nella carriera professionale. Un giovane neolaureato DEVE fare gavetta come tutti quanti, deve irrobustirsi la spina dorsale, perché il mondo reale richiede forza di spirito e di animo, non solo conoscenze nozionistiche. Il chiagne e fotte è atteggiamento perdente e non porta da nessuna parte. Ma il neolaureato, una volta fatta la sua doverosa gavetta ha il DIRITTO di poter dimostrare al mondo produttivo chi è, cosa sa fare più di chi non ha studiato. Questo diritto gli viene invece negato. Come fai a dimostrare di essere un bravo ingegnere o un bravo economista se l’unica opportunità che ti viene data è di lavorare in un call-center o come venditore co.co.co e non invece nel settore per cui hai studiato?
Perché le Università non instaurano rapporti diretti con le aziende, la Confindustria, la Confcommercio, banche, finanziarie, centri di ricerca professionali? Perché fanno solo studiare montagne di equazioni e codicilli, a memoria, senza alcun riscontro pratico?
Altro dato da non sottovalutare e legato a quanto ho appena esposto: poiché le Università italiane sono attanagliate dalle raccomandazioni vigliacche e barbare, la votazione di uno studente può risultare falsata. Come faccio io imprenditore a stabilire se il tuo 110 e lode sia vero e più meritevole di un 92 di un altro studente? Ti devo mettere alla prova. Secondo me, un pessimo bagaglio culturale che ci portiamo dietro dal famoso “18 politico”. Quel sistema è stato il vero demolitore della competizione del sistema educativo italiano, perché ha immesso nel mercato e nella società tutta troppi mediocri lavoratori ed ha nascosto i più bravi, i più meritevoli. Quelli che poi sono probabilmente scappati all’estero per la frustrazione. Ed oggi i detrattori della ricerca e dei ricercatori si rifanno, in parte anche giustamente, a questo sistema pessimo e deplorevole. I mediocri devono essere allontanati per lasciare spazio a chi quel posto se lo merita. La politica è colpevole in prima istanza di questo degrado.
Come possiamo quindi, noi ricercatori meritevoli e non raccomandati, dimostrare che i nostri voti, i nostri risultati, i nostri lavori siano veri, importanti, meritati sul campo col sudore della nostra fronte? E come possiamo avere finalmente una possibilità di riscatto?
Dobbiamo far capire alla politica italiana che è FINITO IL TEMPO DELLA CODARDIA. Dobbiamo far capire a tutta la classe politica italiana, rea di questo sistema di cose, che è finito il tempo delle raccomandazioni, è finito il tempo dei concorsi pubblici truccati. Che è finito il tempo della politica la quale mette il becco laddove non le compete e dove crea solo danni. E’ finito il tempo dell’Università in cui emerge il nipote del Sig.re Rossi solo perché ha questa parentela. E’ finito il tempo in cui si assumono persone in base alla casata e non ai curricula. E badate bene, questa benedetta riforma deve essere fatta in modo trasversale, da persone competenti, sotto il vaglio di noi ricercatori stessi. Come noterete, una tal riforma non ha alcun colore partitico. Non è né di destra né di sinistra. E’ unicamente una riforma giusta e corretta.
Dobbiamo esigere fatti e non parole scritte in leggi e leggine e per farlo noi ricercatori, vivendo sulla stessa barca, dobbiamo finalmente agire uniti e compatti, lasciando perdere le diversità politiche, la vera sciagura che ci ha portati ad avere l’1,1% di PIL in ricerca.