Lingua inglese: la specializzazione smart e il dottorato off-limits
In Italia è sempre più diffusa l’abitudine di sostituire l’italiano con la lingua inglese, e ciò avviene nei più svariati ambiti, fino all’accademia.
In Italia è sempre più diffusa l’abitudine di sostituire l’italiano con l’inglese, e ciò avviene nell’uso quotidiano, per questioni burocratiche, nella politica e nelle istituzioni. Basti pensare al caso dell’anglofonizzazione dei curriculum vitae e, più in generale, al mondo dell’impresa. Le capacità diventano skills, la riunione via skype assume il nome di “call“. Ci sono decine – se non centinaia – di termini anglofoni che hanno preso il sopravvento sulla controparte italiana. Qui vogliamo concentrarci su un altro ambito – sempre di estrema rilevanza – nel quale la lingua inglese “minaccia” l’egemonia dell’italiano. Parliamo dell’accademia, ovvero del mondo universitario. Prima di addentrarci nel contesto italiano, è interessante osservare il caso di alcuni Paesi africani, per comprendere il valore culturale e politico dell’utilizzo di una lingua straniera per il proprio sistema scolastico o accademico.
Il caso africano: verso l’anglofonizzazione con sol o un’eccezione
Secondo alcuni dati statistici, in molte Nazioni – e in particolare nel territorio africano – l’inglese è subentrato alla loro lingua madre. Due dei casi più celebri – che mostrano l’impatto della lingua inglese nella vertente scolastica e accademica – derivano da Paesi principalmente francofoni. Parliamo del Gabon e del Rwanda. Due Stati che hanno deciso di abbandonare – almeno parzialmente – l’idioma transalpino per abbracciare l’inglese. il Gabon ha optato – nel 2012 – per il cambio della lingua ufficiale. Stesso discorso per il Rwanda, che ha marcato la strada già nel 2009. In entrambi i casi, si è trattato di un vero e proprio atto politico, che metteva in evidenza il declino della potenza francese in parte dei territori africani.
Menzione speciale per la Tanzania, che scelse di utilizzare lo Shwaili come prima lingua scolastica. Una scelta che, pur penalizzando l’internazionalizzazione, opera come potente azione simbolica anti-coloniale.
Come è ben risaputo, la lingua è uno dei vettori fondamentali della cultura ed è, in definitiva, uno strumento di potere (nello specifico, del soft power, quello non militare, che opera per altre vie).
Dalle “tre I” della Moratti, passando per la Gelmini fino alla Fedeli, un percorso chiaro all’insegna dell’anglofonizzazione
La tendenza dell’ultima decade, in Italia, è decisamente chiara: favorire l’inglese e l’internazionalizzazione. Celeberrime le tre “I” della Moratti (inglese, imprese e informatica) che spianarono la strada alle future riforme.
Fu Mariastella Gelmini, nel 2008, a proporre per la prima volta di impartire una materia non-linguistica in lingua straniera. Riportiamo, dal decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 (art. 6.2);
“2. Dal primo anno del secondo biennio è impartito l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica, prevista nell’area delle attivitàe degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle istituzioni scolastiche nei limiti del contingente di organico ad esse assegnato e tenuto conto delle richieste degli studenti e delle loro famiglie. Dal secondo anno del secondo biennio è previsto inoltre l’insegnamento, in una diversa lingua straniera, di una disciplina non linguistica, compresa nell’area delle attivitàe degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle istituzioni scolastiche nei limiti del contingente di organico ad esse assegnato e tenuto conto delle richieste degli studenti e delle loro famiglie. Gli insegnamenti previsti dal presente comma sono attivati nei limiti degli organici determinati a legislazione vigente “.
Tale metodo di insegnamento viene conosciuto come Clil, acronimo di Content and Language Integrated Learning. Una proposta che, pur riscontrando un discreto seguito, non ha mai preso realmente piede, complice la mancanza di fondi e professorato adeguato.
Valeria Fedeli e la battaglia con l’Accademia della Crusca
Il gran passo in avanti dell’anglofonizzazione è stato compiuto dall’ultimo Ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, che stabilì che le domande del Prin (bando per il finanziamento dei progetti universitari), dovevano essere presentate unicamente in lingua inglese. Qualora lo si ritenesse necessario, sarebbe stato possibile allegare una copia della stessa in lingua italiana.
Claudio Mazzini, presidente dell’Accademia Della Crusca, nei confronti di tale decisione, ha espresso la più totale indignazione, sottolineando quanto sia folle, per il Ministero, pretendere che le Università Italiane presentino le loro richieste in una lingua straniera. Non si parla, certo, di sterile patriottismo, bensì della più totale assurdità nel volere a tutti i costi compiere un gesto così estremo, come sostituire la propria lingua con un’altra. Far parte di un’ Unione di Nazioni, politicamente legate tra loro, non presuppone di dover condividere con esse la medesima lingua.
L’ex Ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, è stata spesso accusata di voler cancellare l’italiano, di volerlo barbaramente sostituire. Lo stesso professor Marazzini si è scagliato più volte contro di lei per non essere riuscita a tutelare un patrimonio così inestimabile, come la nostra lingua; comportamento, a suo dire suicida e autolesionista. La Fedeli si difese, in un’intervista radiofonica, assicurando che
in quanto “alla vicenda del PRIN vorrei ricordare che la redazione obbligatoria delle domande in lingua inglese appare funzionalmente indispensabile. (…) La stessa lingua che, peraltro, ricercatrici e ricercatori sono abituati a utilizzare quando fanno domanda per partecipare a un qualsiasi bando competitivo europeo. Per conseguenza non ci trovo nulla di scandaloso.”
La risposta, piccata, dell’Accademia della Crusca
Si fa presente che questa battaglia tra l’allora Ministro e l’Accademia della Crusca non rappresenta l’unica lotta tra la Fedeli e i difensori della lingua patria. In occasione della presentazione di un Sillabo programmatico, la Crusca assicurava che il MIUR promuovesse una
“meccanica applicazione di un insieme concettuale anglicizzante, a fronte di un italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari di lingua intesa quale strumento di comunicazione e di conoscenza”. E continuava, ancora, così: “più che un’educazione all’imprenditorialità, sembra promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana e delle sue risorse nei programmi formativi delle forze imprenditoriali del futuro – bocciano i linguisti – pare una sorta di contraffazione paradigmatica della cultura e del patrimonio italiano: è così che si vogliono promuovere e valorizzare le eccellenze italiane, il Made in Italy?” .
La Fedeli si difese assicurando che “l’utilizzo di termini stranieri si rivela funzionalmente necessario quando il “prestito” consente una funzione designativa del tutto inequivoca, specie se si accompagna all’introduzione di nuove “cose”, nuovi “concetti” e delle relative parole.” Parole – queste ultime, della Fedeli – che si rivelarono un vero e proprio boomerang. Il finale di questo botta e risposta a distanza si concluse con la sagace e stizzita nota della Crusca.
“Per imparare a essere imprenditori non occorra saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building; non serva progettare, ma occorra conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day“.
Tra le leggi più discusse della Fedeli troviamo senza dubbio la 107/2015, che detta i criteri di formazione del professorato. Tra questi, spiccava la rilevanza assegnata alla conoscenza della lingua inglese (anche per professori di materie non-linguistiche).
Quando la Corte di Cassazione diede ragione al rettore Azzone
Risale invece al 21 maggio 2012 una storica delibera del Politecnico di Milano. Il Senato Accademico del rinomato ateneo aveva richiesto di istituire corsi di laurea magistrale completamente in lingua inglese, eliminando così la lingua italiana. Il Rettore, Giovanni Azzone, aveva in mente di rivoluzionare la propria Università rendendola completamente aperta agli studenti di tutta Europa e del mondo, eliminando le barriere linguistiche, che tanto scoraggiano la maggior parte degli stranieri intenzionati a studiare in Italia. Il fine ultimo da raggiungere sarebbe stato quello di avvicinarsi alle Università del Belgio e della Gran Bretagna.
I docenti del Politecnico di Milano, contrari alla sostituzione dei corsi in Italiano con quelli in lingua straniera, avevano promosso un ricorso al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale). Quest’ultimo, nel maggio 2013, con la benevolenza dell’Accademia della Crusca, aveva respinto la richiesta del Rettore.
Deluso dalla bocciatura del TAR, Giovanni Azzone si era rivolto in via eccezionale al Consiglio di Stato, raggiungendo la Corte Costituzionale. Il 30 gennaio 2018, dopo alcuni anni, è giunta la decisione finale: il Politecnico di Milano non potrà tenere corsi unicamente in lingua straniera.
Stando a quanto riportato nella Sentenza della Corte Costituzionale, l’impossibilità di istituire corsi per laurea magistrale unicamente in inglese è determinata dalla necessità di affiancarli a corsi in lingua italiana. Questo causerebbe un elevato dispendio di capitale, con costi insostenibili, che andrebbero a gravare sugli studenti stessi. La Corte, dunque, considera illegittima la delibera promossa nel 2012 dal Politecnico, tenendo a cuore di preservare la lingua italiana e di garantire un insegnamento adeguato ai singoli studenti.
Chi è a favore e chi contrario all’anglofonizzazione dell’accademia italiana
Non sono mancati, però, segni di protesta e dissenso da parte di quanti hanno finora sostenuto l’iniziativa del Rettore Azzone. L’Università Italiana, con rigore Medievale, rimane – secondo il loro parere – agganciata a vecchie tradizioni e vecchi ideali. Involucrando il libero arbitrio, si chiede che ad ogni Ateneo venga lasciata la possibilità di scegliere come e in quale lingua trasmettere le nozioni ai propri studenti; lasciarli liberi di potersi affiancare alle migliori Università europee senza dover, con costrizione, restare legati a patriottici meccanismi linguistici.
Chiusura mentale e barriere linguistiche: queste le argomentazioni di chi difende la richiesta dell’UniMi. Gli studenti Universitari, che auspicano a diventare cosmopoliti, hanno bisogno di un insegnamento di base che utilizzi la lingua ufficiale per eccellenza – almeno per ora – dell’Unione Europea (senza naturalmente denigrare o estromettere l’italiano).
Chi ha esultato per la sentenza?
Grande vittoria, invece, per coloro i quali, stando dalla parte dell’Accademia della Crusca, ritengono una follia sostituire l’italiano con l’inglese. L’estromissione della nostra lingua madre sarebbe deleteria per i nostri studenti, molti dei quali, secondo alcuni dati statistici, arrancano perfino nell’esprimersi in italiano. Dopo aver ascoltato le opinioni di molti studenti universitari, siamo giunti alla conclusione che le nostre Università non sono del tutto pronte per affrontare questo passo.
L’introduzione di corsi universitari puramente in lingua inglese – in misura maggiore se di carattere tecnico – sarebbe pressoché destabilizzante. Per poter raggiungere tali livelli di apprendimento, è imprescindibile una conoscenza ottimale della lingua inglese, cosa che manca alla maggior parte degli studenti. In più, se il corso di Studi viene svolto in Italia, è importante e naturale che venga acquisito un linguaggio tecnico, legato a determinate competenze, che sia proprio del Paese in cui il Titolo viene conseguito. Specializzarsi in un determinato ambito, utilizzando esclusivamente un linguaggio di derivazione anglosassone, sarebbe inutile e destabilizzante nel caso in cui venisse richiesto loro di restare a lavorare nel luogo di origine.
Chi e cosa avrebbe spinto il nostro governo a voler rivoluzionare il proprio sistema universitario, a scrivere documenti ufficiali in una lingua straniera, a soppiantare l’italiano? Probabilmente la voglia di emancipazione, la sensazione di sentirsi parte di un meccanismo più ampio, che è l’Europa; il volersi, erroneamente, eguagliare alle altre Nazioni attraverso l’uso dell’inglese, perdendo di vista quelli che sono gli obiettivi più importanti.
L’obbligatorietà dell’inglese sta diventando una realtà
Alcuni Atenei, da non molto tempo, hanno disposto l’obbligatorietà di utilizzare unicamente la lingua inglese nella stesura della tesi finale di Laurea Magistrale. È quello che accade, da quest’anno, nelle facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Salerno. Numerosi studenti sono stati penalizzati dalla propria mediocre conoscenza della lingua straniera e dalla difficoltà di esprimere i concetti principali con termini tecnici mai utilizzati durante i corsi. Questo metodo di valutazione pesa, irrimediabilmente, sul voto finale, ed ha fatto nascere non poche lamentele all’interno dell’Ateneo.
Leggendo i dati del rapporto Anvur del 2018, si osserva come già un 11% della totalità dei corsi sviluppati negli Atenei italiani sia in lingua inglese. Più nello specifico, su 4.644 corsi attivi, 502 comportano l’obbligatorietà di studio in lingua inglese. È da notare la tendenza, che mostra come l’anglofonizzazione stia lentamente prendendo sempre più piede all’interno del mondo accademico. Il numero di corsi sostenuti in lingua inglese è cresciuto (101 in più rispetto alla rilevazione del 2016) e, al contempo, sono diminuiti i corsi sostenuti unicamente in italiano (88 in meno rispetto al 2016).
Molto interessante anche il peso specifico dei corsi in lingua inglese per dipartimenti. Quelli scientifici vedono una maggior proliferazione di corsi in lingua inglese rispetto a quelli umanistici. I corsi scientifici sostenuti in inglese, infatti, rappresentano il 55% di quei 502 attivi – al giorno d’oggi – in tutta Italia. Minor peso dell’inglese, invece, nei dipartimenti umanistici (38% dei 502 attivi). Ciò è dovuto, probabilmente, al gran peso di lettere e della centralità della lingua italiana non solo come mezzo, ma anche come fine ultimo del percorso di studi. Padroneggiarne la storia, la grammatica, il lessico. Elementi che mettono al riparo, che fanno scudo, dall’invasione anglofona.
La specializzazione smart e il dottorato off-limits
Non solo una differenza importante tra dipartimenti. C’è probabilmente un dato ancor più interessante circa l’anglofonizzazione dell’accademia. Secondo l’Anvur, l’aumento dei corsi inglese avviene soprattutto alle magistrali piuttosto che alle triennali. Ciò comporta una maggior presenza della lingua di Shakespeare nei corsi di studio più avanzati. Quindi, specializzazioni “smart” che favoriscono la spendibilità della laurea all’estero, piuttosto che sul suolo patrio. Si riafferma, inoltre, l’obbligatorietà di presentazione del progetto di dottorato in lingua inglese per un gran numero di progetti. Nonostante alcuni ragionevoli intenti di internazionalizzazione, una manovra così radicale può influire in maniera decisamente negativa sulla libertà della produzione accademica. Un dottorato off-limits che può pregiudicare tanti validi ricercatori italiani.
L’internazionalizzazione premia più delle altre variabili: la vittoria della lingua inglese sull’italiano?
Stilare una classifica mondiale sulle migliori università, basandosi principalmente sull’utilizzo della lingua inglese, privilegia i Paesi Anglosassoni e non tiene conto di altri fattori ugualmente – se non più – importanti. Nazioni come la nostra si troverebbero ingiustamente ai posti più bassi, perché non verrebbero giudicate in base a validi criteri, ma solo in base all’abilità nel parlare in una lingua diversa dalla propria.
Anche osservando la classifica nostrana pubblicata dal Censis (vediamo quella aggiornata all’anno accademico 2018/2019), si osserva come il criterio di internazionalizzazione – che include la mobilità internazionale e, per l’appunto, l’offerta dei corsi in lingua inglese – sia assolutamente determinante. nella classifica generale dei mega-atenei (ovvero, quelli che superano i 40.000 iscritti) troviamo, nell’ordine: 1) Bologna; 2) Padova e 3) Firenze – con queste due ex-equo a 86 punti – e 4) La Sapienza. Lo stesso quartetto che guida la classifica dell’internazionalizzazione. Nessun altro criterio rispecchia così fedelmente la classifica generale offerta dal Censis – almeno per quanto riguarda gli atenei più importanti d’Italia -.
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Elaborazione e ricerca dati a cura di Maria Iemmino Pellegrino, Alessandro Faggiano, Stefano Schianca.