Cafarnao: trama, cast completo e curiosità sul film al cinema
Cafarnao: trama, cast completo e curiosità sul film al cinema. Nelle sale in data 11 aprile 2019 con Zain Alrafeea e Nadine Labaki.
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Cafarnao è un film di genere drammatico del 2018. Della durata di 123 minuti, uscirà al cinema il 11 aprile 2019, distribuito da Lucky Red. Viene interpretato da Zain Alrafeea e Nadine Labaki, che ne è anche la regista.
Il film ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar; è stato premiato al Festival di Cannes; ha ottenuto una candidatura a Golden Globes, a BAFTA, a Cesar, a Critics Choice Award. Al Box Office Usa Cafarnao – Caos e miracoli ha incassato 1,6 milioni di dollari.
Nadine Labaki, al suo terzo lungometraggio, mostra di aver interiorizzato gli insegnamenti di Dardenne. Nonostante la struttura forse un po’ troppo lunga e coaotica, è riuscita a creare una vera e propria “bomba emotiva”. La regista libanese conferma la forza del suo impegno civile denunciando le ingiustizie che concorrono al disagio sociale degli “ultimi”.
L’Occidente benestante, sommerso dai beni di consumo, che produce quintali e quintali di spazzatura con cui soffoca i mari… L’Occidente dei grandi magnati che si fa beffe del terzo mondo sfruttandolo, viene denunciato in un film che grida: dobbiamo fare qualcosa! – consapevole della necessità di partire dalla lucida comprensione della condizione degli sfruttati.
Sì perché, in effetti, i veri protagonisti di questo film sono quelli per cui il concetto di “vita dignitosa” significa in primis “sopravvivenza”. Quelli che aspirano innanzitutto ai servizi (per noi) basilari dell’istruzione, dell’assistenza medica e della tutela a livello familiare.
Cafarnao: la trama
Il protagonista di Cafarnao è Zain, un ragazzino dodicenne, nato a Beirut. Ed è proprio nel tribunale di Beirut che facciamo la sua conoscenza. Il ragazzino è in stato di detenzione per aver accoltellato un uomo che ha osato violenza sulla sorella. Tuttavia, questa volta l’accusato non è lui, ma i suoi genitori. Accompagnato da un avvocato (la Labaki stessa), denuncia i propri genitori perché rei di averlo fatto nascere.
Capiamo qualcosa della storia già dal titolo: Cafarnao è un’antica città divenuta simbolo di disordine e anarchia – proprio come la vita di Zain. Nella famiglia numerosa in cui è stato partorito, lui e i suoi fratelli erano strumenti per vendere la droga. Inoltre, la sorella undicenne, cui è particolarmente legato, viene venduta al loro padrone di casa.
Quindi, il ragazzino scappa di casa, finendo per andare a vivere con Rahil (Yordanos Shiferaw). La donna etiope abbraccia il suo bimbo di neanche due anni, di cui Zain dovrà occuparsi quando Rahil sparirà. Come ci si può aspettare, non ne sarà in grado e lo affiderà a un losco individuo.
Infine, la prigione. Zain accoltella l’uomo con cui la sorellina era sposata, avendo scoperto della sua gravidanza, e morte, a causa di un’emorragia. Però non è ancora detta l’ultima parola: in prigione riesce a telefonare a una trasmissione tv che si occupa di problemi dell’infanzia.
Il film si congeda offrendo alla riflessione questa pesante domanda: perché mettere figli al mondo, se non si può evitar loro di soffrire?
Cafarnao: le critiche
Nell’osservazione critica di Cafarnao, forse è giusto chiedersi se sia corretto immergersi in una tal operazione di esplicita spettacolarizzazione della miseria. Ci si potrebbe chiedere se sia moralmente corretto non intervenire direttamente ma solo a livello mediatico.
Bisognerebbe ricordarsi che nell’era radicalmente mediatizzata qual è la nostra, le immagini rivestono un ruolo quasi più potente delle azioni stesse. Queste “apparenze” hanno il potere di plasmare profondamente il nostro modo di concepire la realtà, spingendoci nella direzione di un’azione determinata. Le immagini cui sempre siamo sottoposti su internet, in televisione, nelle onnipresenti operazioni di marketing… sono codici cioè pura informazione che, in sintesi, crea le nostre azioni.
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Il cinema e la fotografia: fra etica e arte
A questo proposito, inquadriamo l’analisi di Cafarnao nel ricordo del caso di Kevin Carter. Carter era un fotografo sudafricano, famoso per le sue controverse fotografie, che ha vinto il Premio Pulitzer per uno scatto che testimonia la carestia in Sudan del 1993. Ha ritratto un avvoltoio in attesa della morte di un bambino pelle e ossa, riverso a terra. Allo stesso modo, ci chiediamo: si tratta di spettacolarizzazione o di denuncia? Carter, sommerso dalle critiche del ricco Mondo Occidentale, si è tolto la vita a trent’anni. La sua grave depressione è radicata nell’accusa di omissione di soccorso.
L’intento di Carter era quello di denunciare una realtà tremenda a livello sociale, economico, politico. E lo ha fatto con i mezzi di cui disponeva. Evidentemente voleva salvare non tanto quella bambina in particolare, di cui non poteva fisicamente cambiare le sorti, ma il suo diritto a vivere un’infanzia che rispondesse alla Dichiarazione dei diritti del bambino. Insomma, si è battuto perché anche i bambini più poveri, magari senza documenti che possano identificarli giuridicamente come “persone”, possano vivere un’infanzia felice.
Carter ha subito una “pubblica lapidazione” per aver scattato una foto. Però, la sua opera è rimasta nell’immaginario collettivo come un simbolo capace di dare significato ai discorsi e alle azioni che hanno come oggetto gli abitanti di paesi devastati.
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