Nei casi di cronaca non è raro leggere che una persona, in un primo tempo sottoposta a misure detentive quali la custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, in un secondo tempo è risultata poi innocente con una sentenza di assoluzione. In queste circostanze, l’ordinamento garantisce alla vittima di questa situazione, quella che, dalla giurisprudenza, è definita “equa riparazione”. Vediamo di seguito di capire meglio come funziona il meccanismo.
Risarcimento ingiusta detenzione: di che si tratta?
Anche i giudici sono esseri umani, quindi – nell’esercizio della loro attività di vaglio delle prove, di ragionamento e di giudizio -possono effettuare valutazioni sbagliate. La legge offre adeguata tutela, in questi casi, attraverso quanto previsto dall’art. 643 del Codice di Procedura Penale, il quale dispone per chi è stato poi assolto, una “riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna“. Si tratta di circostanze in cui, chiaramente, la vittima dell’ingiusta detenzione non ha dato causa, per dolo o colpa grave, all’errore giudiziario compiuto dal magistrato.
In pratica, la legge riconosce il pagamento di una somma di denaro al soggetto ingiustamente detenuto, che non è risarcimento ingiusta detenzione, in senso stretto, bensì indennizzo il quale, in diritto, è cosa in realtà diversa. È infatti una sorta di riparazione offerta ad una persona, per un pregiudizio subito, ma non legato ad uno o più atti illeciti e quindi a responsabilità civile. Per risarcimento, tecnicamente, il legislatore intende una somma riconosciuta (e solitamente più ingente di quella dell’indennizzo), dovuta per un danno, vale a dire un pregiudizio derivato da atto illecito e quindi fonte di responsabilità civile.
In questi casi, l’ingiusta detenzione non può che condurre ad un indennizzo, in quanto il pregiudizio comunque patito, è dipeso da una legittima attività dell’autorità giudiziaria. L’indennizzo, per essere determinato, segue criteri precisi di determinazione ed ha comunque una soglia massima, a differenza di un qualsiasi risarcimento danni. Vediamo quali sono.
Quali sono i criteri di quantificazione dell’indennizzo?
A questo punto è lecito domandarsi come il diritto è in grado di determinare la somma da versare a titolo di indennizzo (detto, nel linguaggio comune, risarcimento ingiusta detenzione), alla vittima di una ingiusta detenzione. Il soggetto deputato ad occuparsi del calcolo sarà la Corte d’Appello, nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il decreto di archiviazione, e farà riferimento a due parametri fondamentali: quantitativo, legato alla durata della custodia cautelare ingiustamente sofferta; qualitativo, basato sulla valutazione caso per caso degli effetti negativi causati dalla limitazione della libertà personale (per esempio i danni morali o il danno alla reputazione, specialmente se personaggio pubblico). L’attuale soglia massima dell’indennizzo, elaborata dalla giurisprudenza per questi casi, è pari a 516.450,90 euro. In sintesi, il giudice dovrà tenere conto di tutta una serie di variabili che serviranno a stabilire un indennizzo proporzionato al caso concreto e alle sofferenze patite, vale a dire un indennizzo “equo”.
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