In Italia non si può dire “24 maggio” senza che nel cervello rimbombi la frase “l’Esercito marciava per raggiunger la frontiera”. Un veneto quando costeggia il Piave canta “Il Piave mormorò” a memoria e aumenta la velocità quando vede che la strada sta per svoltare pur di riuscire a cantarlo tutto. È l’anniversario della nostra entrata in quella carneficina che fu la Grande Guerra. È anche l’inno che ne ricorda la vittoria; la pelle d’oca arriva con “non passa lo straniero”, ed è straordinario come suoni imparentato con l’inno di Mameli. Hanno entrambi quell’epica scanzonata che racconta un popolo di eroi gigioni e paraculi coraggiosi, che detestano il machismo e adorano la pernacchia.
Del resto l’ha scritta un napoletano col mandolino.
La seconda guerra mondiale ci ha divisi come mai nella Storia. È una ferita ancora aperta, alcuni anziani che l’hanno vista sono ancora vivi e dopo due o tre bicchieri di vino ricordano bombardamenti, rastrellamenti, vicini di casa rancorosi e faide tra quartieri. La Grande guerra no. Forse perché non ci fa litigare è finita dimenticata in soffitta, tra monumenti usati come panchina e musei semivuoti. Magari è anche colpa del cinema, che predilige la seconda. Eppure, come mi fece notare una volta il Doc Manhattan, è stato solo in quel momento che abbiamo visto la nostra anima più intima e nascosta, che non facciamo vedere a nessuno. Quando da Palermo a Conegliano abbiamo interpretato la frase “uniti, per Dio, chi vincer ci può?”.
Raccontarla è sminuirla.
Potrei raccontare cosa fu l’occupazione austroungarica. La fame spaventosa, le violenze, i soprusi, gli orrori che ancora oggi escono dalle lettere custodite nel museo di Vittorio Veneto. Oppure potrei raccontare come fu la battaglia del Piave, dove dei ragazzini – dire ragazzi è troppo, nel caso dei nati nel 1899 – fecero imprese oltre l’immaginabile.
Raccontare il mio sconfinato amore per Armando Diaz, o la scena di quando scrutando la mappa del veneto chiese a Ferruccio Parri “Ferru’, ma ndo’ cazzo sta Vittorio?”, in una stanza piena di eroi futuri; alcuni presidenti della Repubblica, altri membri di spicco della Resistenza. Anche questo non renderebbe l’onore del momento.
Così mi è tornata in mente una scena esilarante
Nel film “Don Camillo e Peppone”, ambientato negli anni ’50, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Peppone è un fervente comunista, rappresentante del PCI. Durante un comizio in piazza tuona contro il militarismo indossando il fazzoletto rosso dei partigiani e un bel completo: «Voi giovani, che andate nelle barbare caserme, direte a coloro che tentano di armarvi e di usarvi per i loro sporchi interessi, direte che non combatterete! Direte a coloro che diffamano i lavoratori, ai calunniatori del popolo…»
Don Camillo, dalla finestra, punta il giradischi verso la piazza e manda “Il Piave mormorò”.
A quel suono, Peppone ha orrendi spasmi al corpo e alla faccia, poi gonfia il petto: «Er… Direte… direte che i vostri padri hanno difeso la patria dal barbaro invasore che minacciava i sacri confini. E che noi del ’99, che abbiamo combattuto sul monte Grappa, sulle pietraie del Carso e sul Piave, siamo sempre quelli di allora! E allora, quando tuona il cannone, è la voce della patria che chiama; e noi risponderemo presente!»
«Presente» dice Don Camillo, alzandosi in piedi nella stanza vuota.
«Noi vecchi, che abbiamo sul petto le medaglie al valore conquistate sul campo di battaglia, ci troveremo allora a fianco dei giovani e combatteremo sempre e dovunque! E getteremo l’anima oltre l’ostacolo! E difenderemo i sacri confini d’Italia contro qualsiasi nemico, dell’occidente e dell’oriente! Per l’indipendenza del paese, e al solo scopo del bene indissolubile del Re e della patria! Viva la Repubblica! Viva l’Esercito!»
Folla in delirio, i compagni di partito lo portano via che ancora si sbraccia.
Ho sempre adorato quel momento. Forse perché per un istante ci fa ricordare il nostro minimo comune multiplo, quel lato nascosto che hanno visto solo gli austroungarici, oltre cent’anni fa. Sia come sia, buon 24 maggio, raga.
Sperando non ricapiti mai più.