Barengo è un paesino di campagna tra un fiume e un torrente, a venti chilometri da Novara. Sono ottocento abitanti stretti ai piedi di un castello del 1400, due bar e un campanile circondati da campi di cereali e risaie. Non succede mai niente, lì. Gli uomini si sposano, lavorano tutto il giorno e tornano a casa la sera, si incontrano la domenica a messa con il completo buono e la moglie attaccata al braccio. Fuori, lontano, ci sono le città con la riforma della scuola, Fanfani, le correnti Dorotee e Andreottiane, Papa Giovanni XXIII che rivoluziona la Chiesa, il PIL che chiude a +8,6%.
È come parlare della luna. Nessuno passa per caso a Barengo, nemmeno per vedere quel castello.
Il vicesindaco è il dottor Renzo Ferrari, un veterinario e uno dei pochissimi laureati del paese. È un uomo sulla cinquantina che cura molto l’aspetto, indossa cravatte vistose e completi firmati, ha una 600 e una piccola decappottabile rossa. È fidanzato con Giovanna Barcia, un’impiegata all’Enel di Novara.
Non è la sua sola donna, anzi.
Renzo va fiero che in paese si vociferi delle sue tresche, e si impegna ad alimentarle in ambulatorio e in comune. Nell’Italia del 1962, nel dottor Ferrari molte vedono qualcuno capace di portarle via dai silenzi della campagna, a bordo di una spider rossa, un po’ più vicine alle luci delle città. Giovanna sa delle amanti di Renzo, lui promette che quando si sposeranno ci darà un taglio, ma l’anello e la data di matrimonio non arrivano mai. La campagna è piena di donne, e a lui basta aprire la portiera.
Renata Lualdi è figlia di un operaio di Novara, la più giovane di tre fratelli. È quel tipo di donna minuta dalla voce gentile, gli occhi grandi e innocenti, capaci di dissimulare l’insaziabile passione che hanno dentro. Le altre non capiscono cosa ci trovano, gli uomini, in Renata. È bella come tutte le ventenni, ma non veste ricercata né si mette in mostra. Eppure, quando passa in bicicletta davanti ai bar, gli uomini si sbracciano.
Si prostituisce con discrezione, scegliendo con cura gli amanti che alla fine le fanno scivolare in borsa cinquantamila lire o le fanno regali costosi. In paese si parla, e la famiglia la mette con le spalle al muro; si deve sposare, fare dei figli e non disonorare la famiglia. Lei sceglie il suo amante più ricco, un Allevi, della famiglia che possiede il castello di Morghengo assieme a 3000 pertiche di terra. Producono formaggi e sono ricchi sfondati.
Si fa presentare il fratello maggiore, Tranquillo Allevi.
Il più bello.
Tranquillo, detto “Tino”, è alto, muscoloso e ricorda un po’ gli attori del cinema, se non fosse per quello sguardo vagamente malinconico. Renata lo fa innamorare in pochissimo tempo, stracciando tutte le altre concorrenti in paese. Si sposano nel 1949, lui ha 37 anni e lei 24; vanno a vivere insieme nel castello di lui e pochi mesi dopo nasce la prima figlia, Giancarla. Per nove anni le cose vanno a gonfie vele, anche se in paese le voci non si placano. Alludono a regali di nozze esagerati da parte di sconosciuti. Regali che continuano ad arrivare negli anni, assieme a mazzi di fiori.
Tino non ci bada, perché ha problemi più gravi; nonostante lavori come un animale tutto il giorno, gli affari vanno sempre peggio. Cambiali protestate, milioni persi, debitori col fiato sul collo e creditori col vento ai piedi. Come se non bastasse, gli amici gli dicono che sua moglie è stata vista in giro con un gioielliere di Novara, poi con un veterinario di Barengo, poi con un imprenditore. Lui non ci crede finché un giorno la vede che fa l’amore con Renzo Ferrari, il veterinario, sul greto del Terdoppio. Tino si limita a prendere loro i vestiti e portarseli via.
Quando la moglie torna a casa seminuda, la affronta con calma.
Decidono di lasciare tutto, cambiare città, lavoro, paese, amici, amanti. Abbandonare quella campagna silenziosa, quegli sguardi maliziosi e ricominciare da capo, assieme, come due innamorati. Chiede a Renata dove vorrebbe andare, lei prende un giornale e gli mostra il suo più grande sogno: la Costa azzurra, dove i divi e le dive dello spettacolo vanno in vacanza e fanno sognare il mondo, e puoi incontrare Grace Kelly, Cary Grant, Dalì o Sofia Loren.
Tino non è così ricco, ma fa quello che può; compra un appartamento ad Arma di Taggia, una località balneare dove l’aria profuma di mare e il basilico cresce che è una meraviglia. È a due passi dalla Riviera, dice. Le regala una macchina perché ci possa andare quando vuole, Nizza è a un’ora, Cannes un’ora e mezza. Lui, intanto, trova lavoro come grossista di formaggi e se ne va a venderli nei dintorni con il suo furgoncino. Lei taglia i rapporti con tutti gli amanti, tra cui Ferrari, e lo segue.
L’idillio dura poco. Chi viene dalla provincia porta con sé una fame insaziabile, quell’invidia sociale che non smette mai di logorare l’anima e ha bisogno di qualcosa capace di anestetizzarla. La routine di Renata consiste nel portare i figli a scuola, badare al minore, Carlo, che ha fatto un incidente e ora fatica a star dietro alle lezioni. Fa la spesa, si ossigena i capelli, si tiene in forma, si abbronza come l’elite del cinema a due passi da quella Costa azzurra così vicina eppure così lontana. La spiaggia di Arma è piena di ragazzi giovani e nessuno ci bada. È un posto di mare, la gente va e viene, e i pomeriggi in spiaggia sono lunghi.
Un giorno Renzo Ferrari appare ad Arma.
Ha detto alla fidanzata che era andato in vacanza a porto Cervo, invece è andato lì per riallacciare i rapporti. Di tutte le amanti che aveva, Renata era quella che preferiva e l’unica che è riuscita a scappare dal suo vivaio di risaie e cicale. Affronta Tino e gli offre quattro milioni perché rinunci alla moglie. Tino la prende sul ridere e gli dice che non sta a lui decidere, ma a lei. Renata però è cambiata, e non lo vuole più. Le sembrerebbe di tornare indietro, proprio ora che ha un paese che la lascia in pace, amanti giocattolo giovani e discreti, e soprattutto vive a tanto così dalla Costa Azzurra. È quasi riuscita ad andarsene, e vuole credere suo marito riuscirà a portarla laggiù.
Renzo la prende male. È lui l’elegante, il vicesindaco, quello con la laurea e i completi sartoriali. È lui che rimorchia qualunque donna con la sua spider rossa, facendole evadere dal paesino per il tempo di un amplesso e una sigaretta. Ma Renata è inflessibile; non è più a Morghengo, è lì, a due passi dalla Riviera, da Bing Cosby e Frank Sinatra che duettano come su High Society. Renzo Ferrari torna a Barengo e decide di uccidere Tino Allevi.
Il 22 agosto prende la 600 e va a Momo, un paesino a nemmeno sei minuti da lì dove ha parecchie amanti. Entra in farmacia e chiede al dottor Baguzzi sei fiale di stricnina per curare un cavallo.
«Sei fiale per un cavallo, dottore?»
«Scusi, per un toro.»
Paga ed esce.
Va in municipio e chiede a un messo comunale, Francesco Donna, di procurargli della carta per macchina da scrivere non intestata. Lo sentono battere a macchina per qualche minuto, poi se ne va. Il giorno dopo, 23 agosto, Renzo esce di casa dicendo che deve recarsi a Milano, all’università, per sbrigare una pratica. Invece va alla stazione e alle 11 imbuca uno strano pacco. Riparte in fretta per incontrare sua madre Teodolinda Massarazza, nonché alibi inconsapevole, alle 11.30 in centro a Novara.
Poi torna a casa e aspetta.
Il 24 agosto 1962, a casa della famiglia Allevi arriva un pacco con il marchio di una società di Terme con sede a Bergamo e una lettera. Arriva in mano a Renata il 24 agosto. È per il marito, ma Renata è curiosa e lo apre. Imballata nella paglia c’è una bottiglietta di liquido rosso, con l’etichetta che recita: “Bitter analcolico San Pellegrino”. Renata apre la busta e legge il testo della lettera.
“Egregio signore, poiché avremmo intenzione di lanciare sul mercato questo nuovo aperitivo, offrendole la rappresentanza nella sua zona, ci permettiamo di disturbarla con l’invio di un campione. Provi ad assaggiarlo. Un nostro incaricato verrà a trovarla per conoscere il suo parere. Vogliamo sapere se è di suo gusto e se lo ha trovato gradevole al palato”.
Firma illeggibile.
Renata consegna tutto a Tino e lui fa salti di gioia. È la grande occasione, quella che aspetti da tutta la vita: i liquori non puzzano come i formaggi, gli aperitivi vanno di gran moda e sono molto più raffinati. In una località balneare, poi, c’è da fare un sacco di soldi. Forse abbastanza per fare quegli ultimi chilometri verso la Costa Azzurra.
Mette la bottiglia in frigo e chiama due suoi colleghi, Arnaldo Paini e Marcello Allegranza. Alle 22 di sera, finito di lavorare, racconta agli amici tutto quanto, poi prende tre bicchieri e lo versa: «Bene» dice Tino con un sorriso «Brindiamo al futuro.»
Poi lo butta giù d’un fiato.
Gli altri hanno ancora il bicchiere a metà strada che Tino fa una smorfia e tira un’imprecazione, dicendo che è amarissimo. Arnaldo e Marcello si guardano, poi provano a berne un sorso. Mentre commentano tra loro la scarsa qualità del bitter la stricnina entra in circolo, inibisce il funzionamento della glicina con i suoi recettori, mandando in tilt il sistema nervoso centrale. I muscoli cominciano ad avere strani spasmi, poi Tino cade a terra con la schiena inarcata. Gli amici si alzano per chiedere aiuto ma hanno le gambe molli, la vista offuscata e per riuscire a chiedere aiuto devono quasi strisciare per raggiungere la porta. L’ambulanza arriva quasi subito e li trasporta alla clinica di Villa Spinola. I due amici si salvano con una lavanda gastrica, ma Tino muore alle 22.40.
Nel bitter c’era così tanta stricnina da uccidere due tori adulti.
Mentre i giornali titolano “la morte arriva per corrispondenza”, i Carabinieri ci mettono poco a capire dove guardare. La scatola del bitter è riciclata da una confezione di biscotti. L’etichetta San Pellegrino è stata ritagliata da un giornale medico. La società che l’ha inviato non esiste, ma nell’indirizzo viene chiamato Tino, non Tranquillo. È il soprannome di chi lo conosce bene. Analizzano la lettera battuta a macchina e il foglio, interrogano la moglie e scoprono gli amanti. In due giorni arrivano in municipio e chiedono di avere i fogli di carta non intestata per confrontarli. Il messo comunale sbianca, dice che il dottor Ferrari dopo la storia apparsa sui giornali ha chiesto che gli venissero consegnati tutti.
Ricorda anche che in municipio, mentre tutti commentavano, Ferrari gli aveva detto «Hai letto sui giornali quella faccenda di Arma di Taggia? Io non c’entro, sai. Lì c’è di mezzo un altro uomo. Uno dire niente della carta.»
Il processo è uno spettacolo tutto italiano.
A porte chiuse, Renata è talmente sfacciata nel raccontare dei suoi amanti che una giudice popolare esce dall’aula sconvolta. Sapete, erano i tempi della morale cattolica. La professoressa Sturlese, una tizia tutto pepe e facile all’incazzatura, confronta la lettera con la macchina da scrivere del municipio e non ha dubbi: è stata scritta con quella.
Il perito della difesa, Ghio, obietta che ha confrontato 450 macchine da scrivere modello “Lexicon 80” e i difetti delle lettere sono “molto frequenti in tutte le macchine della serie, per una sorta di predisposizione tecnica”. La Sturlese sbotta: «Signor presidente! Ho osservato subito che la “n” minuscola ha il piedino della prima gamba usurato. Questo il Ghio non l’ha mai notato. Perché io ho quarant’anni di esperienza di macchine da scrivere sulle spalle; ho fatto tutta una serie di collaudi, sono nell’annuario degli esperti della Camera di Commercio di Genova, sono consulente dattilografica del Tribunale e della Corte d’appello. Ho pure la laurea in calligrafia. Il Ghio non è niente.»
Spunta naturalmente il supertestimone: Luigi Scotti, che alle 11 del 23 agosto vede in stazione centrale un uomo spedire il pacco del bitter, ma “non gli sembra” Renzo Ferrari. Se davvero era Ferrari, avrebbe dovuto poi risalire sull’auto, viaggiare a una media di 72 chilometri all’ora per arrivare alle 11.30 al casello autostradale, dove viene visto e riconosciuto da un testimone, tale Bassi. Per il traffico di Milano è una tesi impensabile, e infatti alla fine Scotti si rivelerà il solito mitomane.
Durante tutto il processo, Renzo Ferrari si proclama innocente anche davanti all’evidenza e tiene un atteggiamento da piacione spaccaculi, divertendosi anche a fare doppi sensi sul nome dell’assassinato tipo “sono tranquillo, non ho ucciso Tranquillo”. Renata a quel punto s’incazza e diventa la sua peggiore accusatrice. I giudici, alla fine, gli danno trent’anni di galera. Alla lettura della sentenza Renzo scoppia a piangere e continua a professarsi innocente.
Esce nel 1986, graziato da Francesco Cossiga, solo per morire due anni più tardi. Renata passa gli anni a nascondersi dai giornalisti, senza mai rilasciare dichiarazioni o farsi fotografare. Con il tempo, di lei e dei suoi figli si perdono le tracce.
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