“Io non sono mai stato polemico in vita mia, non vado mai a cercare polemiche. Sono un uomo tranquillo e un bravo ragazzo”.
È il 24 Febbraio 1985, è da poco terminato l’incontro dell’Olimpico tra Roma e Milan e al microfono di Giampiero Galeazzi Agostino Di Bartolomei, ex capitano giallorosso ora in forza al Milan, commenta così una pesante lite avuta in campo con Ciccio Graziani, dopo che “Ago” – così lo chiamavano a Roma e continuano a chiamarlo a Milano i tifosi – ha effettuato un pesante tackle sull’ex compagno di squadra e amico Bruno Conti.
Ecco, basterebbe questa frase a delineare la figura di Di Bartolomei, a tracciarne il profilo caratteriale di persona seria e tranquilla, all’apparenza introversa e malinconica ma, a detta di familiari e amici, affettuosa, dolce, scherzosa e sensibile. Basterebbe questa frase. O forse no. Perché il mondo interiore di Ago era sicuramente più complesso di quello che lui dava a vedere esternamente e ciò, probabilmente, lo ha portato a compiere un gesto estremo che ancora, dopo 25 anni, nessuno riesce a spiegarsi.
Era il 30 Maggio 1994, dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa dalla Roma contro il Liverpool, la sua penultima partita da capitano e giocatore giallorosso.
Chi era Agostino Di Bartolomei
Agostino Di Bartolomei nasce a Roma la sera dell’8 Aprile 1955. Il padre, il signor Franco, al momento della nascita è a casa insieme all’altra figlia di quattro anni, Daniela, e non vede l’ora di poter andare in clinica da suo figlio. La mattina, lungo la strada, si ferma davanti un negozio di articoli sportivi: è un accanito tifoso della Roma e appassionato di calcio e decide di acquistare per il figlio, appena nato, un pallone di cuoio con il quale si presenta in ospedale: Agostino, da poche ore al mondo, riceve il suo primo pallone da calcio mentre è ancora in braccio alla madre, Maria Luisa.
Sin da piccolo, all’oratorio di Via Cristoforo Colombo, nel quartiere Tor Marancia, Ago dimostra tutto il suo talento con la palla tra i piedi: ha solamente dodici anni ma tira certe fucilate e possiede una visione di gioco incredibile per la sua età che gli altri bambini ogni volta se lo contendono. Lui, comunque, non si vanta: è un bambino serio, umile, già maturo – anche troppo – per la sua età.
Passa poco tempo prima che un osservatore di calcio si faccia vivo: è il 1968 e arriva direttamente da Milano, mandato dal Milan. Agostino rifiuta la proposta di trasferirsi per andare a giocare al Nord, anche perché l’idea di diventare calciatore non lo alletta più di tanto: è molto bravo a scuola e, sia alle medie, sia alle superiori, i professori affermano che quel ragazzo è in grado di poter intraprendere carriere universitarie di qualsiasi ambito ed eccellere in tutte.
Già nel 1969, però, si fa vivo un altro osservatore, Camillo Anastasi, della Roma, abile nello scovare talenti nei campetti di periferia, che passa un intero pomeriggio a convincere il padre ma soprattutto lui, Ago, ad entrare nelle giovanili della squadra giallorossa.
Papà e figlio, quando il procuratore va via, restano da soli a parlare:
“Agostì, se vuoi andare vai, ma sappi che non sarai costretto a rimanere. Se vedi che ti diverti e ti piace ci resti, sennò te ne vai”.
Vista in questo modo, suona diversamente: il ragazzo capisce che sarà lui a scegliere se diventare calciatore o no. Così, in un pomeriggio lontano del 1969 comincia la lunga avventura di Agostino Di Bartolomei con la maglia della Roma, la SUA maglia.
Dalla Primavera all’esordio in Serie A, la parentesi al Vicenza e la consacrazione
Di Bartolomei ci mette poco a farsi notare: perno inamovibile di tutte le squadre giovanili, con la Primavera vince due campionati consecutivi (1972/73, 1973/74). In questo periodo si fa notare da Helenio Herrera, il Mago, allenatore giallorosso ex Inter che lo aveva scelto ai provini sostenuti a Tre Fontane nel 1969.
Arriverà il 22 Aprile 1973, in occasione della trasferta di San Siro contro l’Inter (0-0), l’esordio in prima squadra. Sulla panchina della Roma siede ora Antonio Trebiciani, già suo allenatore in Primavera. Il Mago è andato via, dimissionario, da due settimane.
La stagione successiva arrivano Manlio Scopigno, per le prime sei giornate, e poi Niels Liedholm a Roma. Lo svedese conosce già Ago e ha avuto modo di apprezzarne le doti tecniche e tattiche, definendolo, inoltre, “un capitano”.
Il 7 Ottobre 1973 arriva il primo gol con la maglia giallorossa: contro il Bologna finisce 2-1. Di Bartolomei quell’anno gioca 12 partite da mediano, il suo ruolo, tra campionato e coppa Italia. Saranno 15 – 13 in campionato, 2 in coppa Italia -, con minutaggio più elevato, le presenze l’annata successiva.
Nella stagione 1975/76, Ago viene mandato in prestito a Vicenza, al Lanerossi, dove si afferma definitivamente sotto la guida di Manlio Scopigno, per poco allenatore della Roma due anni prima.
Le doti di regista, le innate capacità di lettura in anticipo delle fasi di gioco, che sopperiscono a una minore propensione allo scatto e alla corsa, e il tiro potente lo fanno emergere in B, dove gioca il primo campionato da titolare (37 presenze complessive condite da 5 reti) gli consentono di tornare a Roma dove, nell’annata 1976/77, diviene pedina fondamentale dell’undici giallorosso.
Dal 1976 al 1980 scende in campo ben 124 volte con la casacca giallorossa mettendo a segno 37 reti, frutto anche di punizioni e rigori micidiali: i calci da fermo, infatti, li batte tutti Ago. Vince, inoltre, proprio nel 1980, la Coppa Italia.
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1980-1984: la fascia di capitano, lo scudetto, la finale di coppa dei campioni e l’addio
Dalla stagione 1980/81 Di Bartolomei diviene capitano di una Roma molto forte in cui, tra gli altri, militano giocatori del calibro di Paulo Roberto Falcao, Roberto Pruzzo, Bruno Conti, Carlo Ancelotti e Romeo Benetti. I giallorossi in campionato giungono secondi, dietro soltanto alla Juventus, e vincono, per la seconda volta consecutiva, la Coppa Italia. Il primo anno con la fascia al braccio, Ago gioca 38 partite in tutte le competizioni mettendo a segno ben 10 reti.
Dopo il terzo posto della stagione 1981/82, nell’Estate in cui l’Italia diviene campione del mondo (e in cui Agostino, immeritatamente, non milita), arrivano all’Ombra del Colosseo i difensori Michele Nappi, Aldo Maldera e Pietro Vierchowod e il centrocampista austriaco Herbert Prohaska.
È proprio in questa stagione che il Barone Liedholm ha un’intuizione tattica geniale: Ago giocherà da libero. In questo modo, il capitano giallorosso non solo potrà dare un grosso contributo a un reparto difensivo già consolidato, ma, in una posizione arretrata, potrà impostare meglio il gioco perché più libero dalla marcatura avversaria.
I risultati, alla fine, premiano l’allenatore svedese: dopo 41 anni la Roma è nuovamente campione d’Italia, Agostino è protagonista di un campionato eccellente in cui mette a segno 7 reti in 28 presenze e propizia l’assist per il gol di Pruzzo a Genoa, che regala alla Roma il titolo.
Ago è felice: ha raggiunto un traguardo importante con la maglia della sua città, ha giocato e lottato per la sua gente e adesso vuole vincere la Coppa dei Campioni che la Roma giocherà, per la prima volta, nella stagione 1983/84.
Nella manifestazione europea per club, la squadra di Liedholm giunge fino alla finale grazie soprattutto al rigore trasformato da Di Bartolomei in semifinale contro il Dundee, grazie al quale i giallorossi trionfano 3-0 (doppietta di Pruzzo) e ribaltano il 2-0 ottenuto in Scozia.
La finale del 30 Maggio 1984 – una data tanto importante quanto da dimenticare – si gioca all’Olimpico. Avversario della Roma è il Liverpool, già tre volte vincitore della competizione.
I Reds passano subito in vantaggio con il capitano Neal dopo 14 minuti. Il pareggio romanista è siglato da Pruzzo al 43‘. Il risultato resta fisso sull’1-1 fino ai tempi regolamentari e poi fino ai supplementari: si andrà ai rigori.
Batte per primo il capitano: Ago calcia centrale ma di potenza, sfonda la rete e porta in vantaggio la Roma. Purtroppo, però, gli errori di Conti e Graziani consegnano la Coppa, per la quarta volta, agli inglesi.
È una grossa delusione, una doccia fredda per Di Bartolomei e compagni che a malapena riescono a consolarsi con la terza Coppa Italia in 5 anni, conquistata il 26 Giugno seguente contro il Verona.
Tuttavia, per l’ambiente arriverà un’ulteriore doccia fredda: il presidente Dino Viola cede Di Bartolomei, che segue Liedholm, al Milan.
Nella capitale nessuno ci vuole credere, i tifosi non vogliono perdere il loro capitano, simbolo principale della squadra. Ci prova Antonello Venditti, grande amico di Di Bartolomei e tifoso romanista a convincere il presidente, ci prova persino Giulio Andreotti, esponente della Democrazia Cristiana, più volte presidente del Consiglio, estimatore di Ago e, ovviamente, tifosissimo della Roma. Non c’è niente da fare però, perché Viola ha deciso: Agostino Di Bartolomei è troppo lento per il gioco proposto dal nuovo allenatore, Sven Goran Eriksson.
Ago fa le valigie e si trasferisce al Milan, squadra che aveva rifiutato sedici anni prima.
Milan, Cesena e Salernitana: l’ultima parte della carriera di Agostino Di Bartolomei
Approdato in Lombardia, Di Bartolomei, ovviamente, risulta essere fondamentale nell’undici rossonero che si rinforza, per la stagione 1984/85 con l’arrivo di Virdis, Wilkins e Hateley.
Segna alla sua Roma, il 14 Ottobre 1984, e la sua esultanza rabbiosa sotto la curva rossonera, scatena l’ira dei tifosi giallorossi che lo accusano di tradimento.
Segna anche nel derby del 28 Ottobre, che il Milan vince dopo sei anni, contribuendo al quinto posto finale, che frutta ai rossoneri la qualificazione in Coppa Uefa. Gioca tutte e 13 le partite di Coppa Italia che la squadra meneghina perde in finale contro la Sampdoria. Mette a segno 9 reti in 42 presenze stagionali.
Indossa la casacca rossonera per altre due stagioni, giocando 81 partite e siglando altri 5 gol.
Con l’arrivo di Sacchi sulla panchina del Milan nel 1987, Ago è costretto a fare nuovamente le valigie: il Vate di Fusignano gli preferisce Ancelotti nel suo ruolo.
Si accasa al Cesena per la stagione 1987/88 e, grazie alla sua esperienza, conduce i romagnoli a una salvezza tranquilla e un eccellente 9° posto in classifica. Segna 4 gol in 25 presenze e a fine stagione si trasferisce in Campania, alla Salernitana, in Serie C.
A Salerno, nonostante la piazza sia più bassa rispetto a quelle in cui ha militato in carriera, Agostino si dimostra come sempre professionale e umile e, addirittura, accetta la panchina. E talvolta anche la tribuna che l’allenatore Pasinato gli riserva a inizio campionato 1988/89.
Pasinato verrà poi esonerato, visti gli scarsi risultati, dal presidente Gigante, che al suo posto chiama Lamberto Leonardi. Il nuovo tecnico costruisce la squadra attorno all’ex capitano giallorosso e, a fine stagione, la Salernitana si salva.
L’annata successiva, Di Bartolomei è sempre più leader dei cavallucci marini: un suo gol, nella trasferta di Brindisi, risulta decisivo per il raggiungimento della promozione in Serie B dei campani, che arriva dopo ventitré anni.
Ago, nel Giugno del 1990, dà l’addio al calcio con il suo solito aplomb, senza troppi clamori e insieme alla famiglia decide di restare in Campania, a Castellabate, nella villa dei genitori della moglie Marisa.
30 Maggio 1994: Agostino Di Bartolomei dice basta
“A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi”.
È una delle frasi che più ricalca la persona: Ago decide di aprire una scuola calcio a Castellabate per insegnare ai bambini non solo i fondamentali tecnici e tattici del calcio, ma anche la serietà, la costanza, l’impegno e l’umiltà che questo sport richiede per arrivare al massimo.
Invita Liedholm più volte per fargli vedere la sua nuova attività: il Barone non potrà mai andare.
Prova a ottenere finanziamenti dalla regione e dal comune per fare crescere la scuola calcio e farla diventare un fiore all’occhiello per la regione Campania, una struttura all’avanguardia in una terra dove, negli anni ’90, di impianti del genere non ce ne sono: non sarà possibile.
Nel frattempo, scrive alla dirigenza della Roma per dare consigli su come gestire al meglio lo spogliatoio, per come fare crescere i giovani: anche lì, Ago può dire la sua. Roma è la sua città, la Roma la sua squadra.
Dietro quelle lettere c’è una velata richiesta, non scritta, ma intuibile: vuole tornare alla Roma in veste di dirigente. Tuttavia, Ago non vuole chiedere, non è nel suo carattere. Spera che sia la Roma a fare il primo passo ma, anche in questo caso, nulla di fatto.
Non si sa per quale motivo, quella mattina di fine Maggio del 1994, lo stesso giorno della finale persa dieci anni prima, Ago si sia alzato alle 7:30, abbia chiesto al figlio Luca di non andare a scuola per portarlo con sé a Salerno ottenendo tuttavia risposta negativa da un bambino che, già a 11 anni, somigliava al padre in fatto di serietà e alla fine si sia diretto nel suo studio dove deteneva una Smith e Wesson calibro 38 puntandosela al cuore e premendo il grilletto.
Agostino Di Bartolomei aveva solo 39 anni.
La notizia si diffonde in tutta Italia e arriva anche nella capitale. Al funerale ci sono giocatori e dirigenti di Roma e Salernitana, oltre ad altre personalità calcistiche e dello spettacolo come Venditti.
A Salerno è lutto cittadino: ci sono tutti a salutare un uomo per bene, una persona a-tipica per un mondo tanto cinico come quello del calcio, che lo ha dimenticato senza neanche ringraziarlo.
Al di là di ciò che abbia spinto Ago ad andare via da questo mondo e lasciare moglie e due figli, quello che più importa e fa male in tutta questa storia è aver perso una persona speciale, non compresa fino in fondo.
Questo è (e sarà sempre) il rimpianto più grande, in primis, di chi gli è stato, veramente e fino in fondo, accanto.
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