Negli anni ‘80 i giornali nazionali fatturavano miliardi di lire, i giornalisti avevano uno stile di vita più che discreto e una corposa mole di privilegi. Riviste improbabili campavano benissimo e i direttori facevano vita da nababbi grazie ai finanziamenti statali e ai trentamila pazzi che davvero comprano riviste di golf, lifestyle o curling.
Quello che i lettori non sanno, però, è che il grosso dei soldi non veniva dalle copie vendute – comunque parecchie, rispetto a oggi – ma dalle pubblicità. Far apparire il proprio prodotto su un mensile o un quotidiano costava ufficialmente X milioni, che realmente erano X + X2. L’azienda andava da chi di dovere nella redazione e faceva regali, viaggi, gadget, inviti, così da entrare nella lista dei candidati pagatori. Dai regali si è passati presto a vere e proprie tangenti, tanto che nel 1990 bisognava letteralmente pagare per poter sperare di pagare, come in molte aziende di quel periodo storico. Alla fine la pubblicità usciva, le vendite andavano bene ed erano tutti contenti.
Nessuno sapeva quanto influisse la pubblicità nelle vendite. Non c’era modo di saperlo.
Poi nel ’92 c’è Tangentopoli e nasce la seconda Repubblica. Dal 31 dicembre 1991 a quello del 1995, la lira si svaluta del 29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro. Il PIL cresce solo del 5,4%, c’è lo scoppio della bolla Dot.com, e gli scenari geopolitici cambiano in fretta, con svariate crisi finanziarie in giro per il mondo. A Milano, un’azienda di beni di lusso guarda i bilanci calanti; i marketing strategist suggeriscono di investire di più in pubblicità, ma l’amministratore delegato è un giocatore di poker: contro tutto il CdA, decide che per restare in attivo rinunceranno a pagare pubblicità e tangenti per un trimestre. Adesso è difficile da immaginare, ma era come parlare di energia nucleare nel 1800.
«È impazzito» dicono tutti.
Nelle case degli amministratori, nei ristoranti di grido, nei country club e nei campi da tennis, chiunque graviti attorno a quell’azienda sa della folle decisione e ne è terrorizzato. Se non sei sulle pagine delle riviste non esisti, lo sanno tutti. Terminato il trimestre gli amministratori guardano i bilanci: le vendite sono rimaste uguali, anzi, sono impercettibilmente salite. Incuriositi e confusi, decidono di rinunciare alla pubblicità anche il trimestre successivo, con lo stesso risultato:
«Scusate» domanda l’amministratore delegato «Ma allora a cosa serve buttare miliardi in tangenti e regali?». È una domanda che si fanno tutte le altre aziende, una dopo l’altra, passandosi la voce da Milano e poi nel resto d’Italia: la pubblicità sui giornali non fa vendere nulla, dicono.
Alcuni continuano a pagare solo per prestigio, ma la stragrande maggioranza smette di investirci. Gli addetti alle tangenti dei giornali – detti responsabili marketing – dall’oggi al domani si trovano senza liquidità da distribuire ai giornalisti che recensivano alberghi, pacchetti vacanze, automobili, status symbol, libri, autori. È un problema bello grosso, perché ogni testata, ogni magazine, ha in redazione persone con stipendi fantascientifici tarati su introiti gonfiati – e in nero. Non sono nemmeno licenziabili, vuoi per contratti blindatissimi, vuoi per politica. Le redazioni, a fine anni ’90, avevano più vicedirettori che giornalisti. Un giornale di provincia dove ho lavorato io ne aveva quattro.
Cosa fai, in questo caso?
Alcune testate, pur vendendo parecchie copie, chiudono. Altre vengono vendute ad altri gruppi editoriali che ricollocano i giornalisti, fanno esuberi o licenziamenti. Inizia la crisi dell’editoria, finché arriva Internet – o meglio, arriva Google – e si apre un nuovo capitolo, troppo lungo e complesso per scriverlo qui. Ma se la “crisi del giornalismo” fosse un motore, quello che avete letto è la storia del serbatoio della benzina. Di cui però si cerca di non parlare mai.
È una storia nota, tra i vecchi articolisti e giornalisti, e se gli paghi da bere ti raccontano aneddoti strabilianti degli anni d’oro “giravo in Porsche!”. Magari per i nuovi ragazzi che si affacciano a ‘sto mestiere no.
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