Ecco a cosa serve una laurea in performance artistica

Abbiamo visto sandali di plastica a 1200 euro, borse Ikea a 3000, scarpe finto sporche da 900, ma finalmente una stilista ha avuto l’intuizione geniale

Ecco a cosa serve una laurea in performance artistica
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Se dovessimo stilare una classifica delle comunità più alienate dal paese reale, i suggerimenti si sprecherebbero. I terrapiattisti, i residenti in area C, Michela Murgia (la sua intelligenza occupa più sedie), i respiriani, ce n’è per tutti i gusti. Ma se proprio dovessimo scegliere il primo classificato, penso tutti concorderemmo nel citare il mondo della moda.

Al pari degli Uomini rossi o degli indigeni di Myanmar, essi vivono in un ecosistema impenetrabile. Hanno i loro codici, le loro priorità, le loro visioni fantastiche in cui il paese reale sta alle loro creazioni come il principio attivo sta all’omeopatia. Tutti noi, se vediamo delle sfilate, scuotiamo la testa e cambiamo canale; siamo troppo ignoranti per capire il potente messaggio sociale, la velata critica politica, il sottile citazionismo: vediamo solo tizi vestiti da rincoglioniti.

Tuttavia, mentre la stragrande maggioranza si volta dall’altra parte e continua a vestire come suo padre e suo nonno prima di lui, oggi chi ha voglia di perdere tempo grida hey, nessuno girerà mai vestito così. Gli stilisti gioiscono: se li hai notati, il loro scopo è raggiunto. Il mondo della moda ha una mentalità pre Lord Brummel (1800). È più una versione punkabbestia di Versailles nel 1600, in cui più brutta è la roba che hai addosso, peggio è abbinata, più vieni notato. Gli stilisti non sono sarti, professionisti capaci di stemperare i nostri difetti e far risaltare i pregi; sono mercanti che cercano di convincerci che essere brutti è figo.

E che vale la pena pagare per farlo.

Era questione di tempo, prima che qualcuno scoprisse l’uovo di Colombo

Abbiamo visto sandali di plastica a 1200 euro, borse dell’Ikea a 3000, scarpe da ginnastica finto sporche da 900, ma finalmente una stilista ha avuto l’intuizione geniale: s’è pisciata addosso in metropolitana. In un’intervista ha spiegato che faceva parte di una sua performance art (la signora è laureata, in Performance art) e quella di pisciarsi addosso è un grande classico di ‘ste cose. È così nata la collezione Wetness, abiti che sembrano inzuppati di fluidi corporei senza esserlo. Le emozioni sono collegate ai nostri fluidi corporei, dopotutto. Così la prode stilista ha raggiunto la sede e ha chiesto alle modelle di pisciarsi addosso a loro volta, per poi togliere loro i pantaloni e consegnarli ai modellisti che avrebbero dovuto ricrearli.

Stranamente, piangevano tutti

La stilista spiega che ovunque guardasse, nella classe, la gente piangeva. È rimasta colpita dal fatto che erano “imbarazzati, si coprivano il viso con le mani o si nascondevano da qualche parte in un angolo”. È certa che fosse per la quantità di stress emozionale a cui erano sottoposti, io invece credo dipenda più dal fatto che questi hanno pagato per diventare stilisti e si trovano a maneggiare jeans coperti di piscio dietro ordine di una pazza.

Insomma, magari sono strano io.

Però se una sostiene “voglio parlare alle donne, alle nostre vagine, ai nostri seni e alle nostre forme, ma senza volgarità” e poi il pavimento della classe sembra quello dei cessi della stazione di Mestre, so dire quale modella ha mangiato asparagi e devo pure cucire, qualcosa non è andato come previsto. Un piantino me lo farei anch’io. Poi magari diventerà una cosa mainstream e per rinnovare il mio guardaroba dovrò pisciare nell’armadio, vai a sapere.

Continuo a preferire Emily Ratajkowsky in doppiopetto di lino

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