Le urla della madre si erano cominciate a sentire un’ora prima, circa. Prima rabbiose, poi allarmate, poi disperate. “Francesco” è diventato una eco che rimbombava per le stradine con l’asfalto dissestato e i cassonetti, berciato da qualsiasi tipo di voce, giovane o vecchia.
Aveva cinque anni, mi pare.
Adesso sono le tre e mezza di pomeriggio di un agosto del decennio scorso, in un paesino del veneto costruito attorno alla statale. Le strade sono più deserte del solito, non ci sono ancora gli etilometri e le auto sfrecciano tra campi e cicale dirette a Jesolo, Bibione o Caorle. Le famiglie meno agiate non sono andate in ferie per la crisi, e i loro figli – adolescenti o meno – bighellonano in bici o skateboard sull’asfalto rovente, si riposano all’ombra dei palazzi fumando sigarette e fischiando alle figlie dei vicini che sorridono dai balconi. A volte la sera scendono, finiti i compiti delle vacanze; gambe acerbe in minishorts, canottiera e sneakers si affollano nell’unica gelateria che offre cioccolato, cocco, fragola, limone e menta – ma sanno tutti di vaniglia sintetica. La pizzeria in stile far west ha i menu incellophanati con le foto sbiadite dal sole, i tavolini pieni d’incisioni e quel pomeriggio c’è così tanto silenzio che il ronzio del vecchio freezer sovrasta la radio che gracchia Cleptomania degli Sugarfree.
Io ho quasi trent’anni, sono arrivato lì per una conosciuta a un concerto. I suoi sono andati al mare, ha la casa libera, e io sono uno spiantato che cerca di scrivere per La Nuova Venezia qualcosa di più di negozi che chiudono e riunioni di municipio.
Siamo al piano terra, quando sentiamo le grida.
Al quinto piano, la famiglia di Francesco decide di trombare. Solo che fa un caldo d’inferno, l’appartamento di fronte a loro è vuoto – ci abita un manager, che è in ferie – e loro tengono la porta aperta per far entrare il fresco del corridoio. Francesco dormiva in camera sua, ma quando loro hanno finito non lo trovano più.
Il padre è una gran brutta bestia, ciondolo tribale al collo, polo col colletto rialzato, bermuda e infradito, ha gli occhi fuori della testa e prende a pugni la porta e i muri. Dalle scale si affaccia il resto degli abitanti del condominio. La quarantenne di fronte a noi in accappatoio, poi al primo piano le due lesbiche e l’idraulico arrapato. Al secondo la vecchia sola. Al terzo la coppietta di vecchi attaccabrighe e una famiglia Sfigados, poi i genitori del piccolo Francesco. Chi ha visto il bambino? Nessuno. Potrebbe essere uscito dal portone del condominio, lasciato aperto per fare corrente, ma non dal giardino. Il cancello si apre col pulsante interno al palazzo. Troppo complicato per uno di quattro anni.
«Chiamiamo il 112» dico, e il mio contributo a questa storia termina qui.
«Ma và là, sarà qui che gioca» dice il padre.
Nessuno sembra intenzionato a contraddirlo. La moglie mi fissa cattiva, ha così poco sangue in faccia che le si vedono vene e capillari: «Tu chi sei, poi?» sibila. La mia ragazza mi presenta e la moglie smette di considerarci.
È a quel punto che sento la puzza. È un misto tra lettiera di gatto e uova andate. All’inizio penso qualcuno abbia sfiatato, poi me ne arriva un’altra più forte. Inspiro, faccio una smorfia, mi giro verso la mia ragazza che stringe le spalle e fa un cenno con la testa verso l’alto. Nell’appartamento del terzo piano c’è sempre quest’odore orrendo, tanto che all’esterno la puzza risale al quarto e al quinto piano, costringendo la famiglia attaccabrighe e i chiavadores a tenere sempre le finestre chiuse. Il caldo diventa intollerabile, così tengono aperta la porta e il piccino fugge – o viene rapito, chissà. La causa di tutto è l’odore pazzesco che proviene da lì. È un problema per tutti, ma l’unica che potrebbe protestare è la vecchia dell’appartamento di fronte. Ma lei era chimica in una fabbrica di alcolici, faceva i test per la qualità dell’alcool che arrivava. Alla fine è rimasta invalida al 100%, non sente gli odori e vive tranquilla.
Gli altri inquilini molto meno.
La storia dell’odore è ridicola, o tragica. Al terzo piano abita un operaio di Marghera. La moglie, fervente animalista, gli era morta in un incidente stradale tre anni prima, e tutto quello che restava all’uomo di lei erano due cincillà, Zip e Zap, che lei aveva salvato chissà dove. L’uomo, invece di darli via, se li è tenuti. I roditori chiavano a mostro moltiplicandosi a vista d’occhio, e la cosa va fuori controllo quando l’uomo scopre di non poter più distinguere Zip e Zap dai figli. Quindi, inorridito all’idea di perdere l’ultimo ricordo della moglie, decide di tenerli tutti. L’appartamento è di proprietà, non c’è modo di allontanarlo e la cosa finisce sulla scrivania di qualche giudice, sotto mucchi di altre storie simili. Il tanfo intanto logora i nervi, e il caldo peggiora le cose. A cercare Francesco c’è una congrega di gente i cui nervi sono appesi a un filo di ragnatela in un giorno di vento.
«Avete guardato sul tetto?»
«Sì, e come ci arrivava? È chiuso a chiave, non ci va nessuno.»
È proprio in quel momento che, nel silenzio del pomeriggio, dalla cima delle scale sentiamo il cigolare di una porta d’acciaio. Poi la serratura che viene chiusa con estrema cautela. Gli occhi dei presenti cercano negli altri la conferma al sospetto, poi senza dire una parola il padre parte su per le scale facendo tre gradini alla volta. Gli altri inquilini lo seguono, io rimango con la mia fidanzata giù finché non sentiamo urlare. È il manager, o meglio quello che si spacciava per tale. Uno dei tanti SUV parcheggiati fuori in giardino. Venditore di auto usate, l’azienda con la crisi l’ha lasciato a casa con quindici giorni di preavviso l’anno scorso. Ma si guarda bene dal dirlo ad amici e amanti, così si abbronza dormicchiando sul tetto per raccontare di essere stato in ferie, mentre in realtà sbarca il lunario a Mestre come guardiano notturno. Non sa niente del bambino, dormiva. L’alfa però è molto incazzato per il fatto che il mEnager vada sul tetto. Da quanto ci va? Da luglio. E come fa ad avere le chiavi? Le ho da un pezzo e poi faccio quello che mi pare.
«Scusa, Mauro, ma se chiamiamo…»
«Te go dito de no» bestemmia l’alfa «Gavè da farve i cassi vostri, va ben?»
Il motivo, alla fine, salterà fuori che era proprio il tetto, dove il buon alfa
aveva costruito una serra nella quale coltivava piante non legali, il cui
prodotto veniva poi smerciato a Marghera per fornire gli omogeneizzati e i
pannolini. Il piccolo Francesco emergerà vivo e vegeto alla sera dall’appartamento
della quarantenne che l’aveva visto vagare per le scale e se l’era tirato in
casa. Perché? Non lo sa. E perché non l’ha detto? Perché il padre urlava e
aveva paura la ammazzasse.
La signora da anni soffre di una psicopatologia che le causa attacchi di depersonalizzazione, una cosa per cui arrivi a non riconoscere te stessa allo specchio, o quello che hai attorno. Per curarsi dovrebbe andare in terapia, ma lei ha il terrore dei farmaci e si affida a una naturopata che le prescrive fiori di Bach. Curiosamente non funziona, perciò a volte la donna crede di avere ancora suo figlio in casa, mentre il bambino è dal padre da mesi. Il motivo è che la signora ha attacchi anche violenti, e ci credo: chissà cosa dev’essere svegliarsi in una casa che non conosci con un uomo che non conosci che ti si avvicina e ti chiama con un nome non tuo.
Dieci anni dopo, il piccolo Francesco è venuto alla ribalta per fatti di cronaca nera ed è stato condotto in riformatorio. Sotto la notizia, i commenti della gente gli augurano pene corporali, lavori forzati, torture. Io lo ricordo da piccolo, quando saltò fuori con la polizia in giardino e le urla della quarantenne che venivano sovrastate da quelle del padre, l’eau du Cincillà e le facce degli altri inquilini ai balconi, ognuno con la propria storia, i propri soprammobili a forma di gatto sulla madia, le proprie raccolte firme, la propria noia, che vedi passare dal finestrino mentre vai da un’altra parte.
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