Nella prassi dei rapporti tra datore di lavoro ed azienda, oggigiorno, i possibili casi di concorrenza sleale sono potenzialmente innumerevoli. Vediamo di seguito cosa dice la legge a salvaguardia dell’impresa e della sua attività.
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Concorrenza sleale dipendente: quando?
Non è raro che un dipendente, magari particolarmente qualificato (ad esempio un ingegnere), decida di migrare verso una nuova azienda, lasciando quella vecchia. Succede spesso anche che un lavoratore decida di lavorare autonomamente, magari dopo anni di esperienza e di utilizzo del know how dell’azienda in cui lavorava. Ma anche non sono rari i casi in cui un lavoratore, impiegato presso una certa azienda, svolga, allo stesso tempo, una seconda attività presso terzi, concorrenziale con l’altra. Si tratta certamente di situazioni in cui il rischio di fenomeni di concorrenza sleale del dipendente, è piuttosto alto. In queste circostanze, può infatti accadere che il lavoratore abusi di informazioni riservate, di segreti industriali e le riveli presso il nuovo ambiente di lavoro. Si tratta di informazioni riguardanti condizioni di vendita, metodi di produzione, strategie, documenti tecnici e ogni altro elemento determinante per il business della vecchia azienda. Vediamo, a questo punto, cosa dice la legge in merito e quando di parla di concorrenza sleale dipendente.
Come arginare il problema?
In verità, prima di arrivare alla violazione dell’obbligo di riservatezza e di non svolgere concorrenza sleale (che nei casi più gravi può anche condurre al licenziamento), la legge offre valide indicazioni per reprimere il fenomeno in oggetto. Anzitutto, anche se non è sottoscritto da dipendente e datore di lavoro, il cosiddetto patto di non concorrenza, il lavoratore non può – comunque e in ogni caso – svolgere una ulteriore attività concorrenziale con il datore di lavoro (magari avendo così l’occasione di divulgare segreti ed informazioni riservate sul sistema di produzione di un’azienda, ad esempio). Altrimenti, scatterebbe la violazione dell’obbligo di fedeltà (ai sensi dell’art. 2105 del Codice Civile), e ciò si avrebbe indipendentemente dal fatto che il lavoratore percepisca una seconda retribuzione e dal tipo di inquadramento (autonomo o subordinato). Conta piuttosto l’attività svolta, le mansioni svolte in violazione delle regole di fedeltà e di concorrenza.
In ogni caso, per evitare spiacevoli situazioni con l’azienda, sarà opportuno, a livello di contratto, redigere eventualmente un accordo scritto con l’azienda, che abbia lo scopo di “derogare” al divieto di concorrenza sleale dipendente. Anzi, la funzione sarà quella di chiarire, a priori, che l’attività (ulteriore presso altra azienda) del dipendente, non è dal datore di lavoro considerata come violazione dell’obbligo di fedeltà e di concorrenza. Una sorta di “chiarimento preventivo“, onde evitare eventuali rischi di procedimenti disciplinari in un secondo momento.
In verità la legge, all’art. 2125 del Codice Civile, disciplina il cosiddetto patto di non concorrenza (leggi qui per un quadro completo e tutte le informazioni utili su di esso) tra datore di lavoro e lavoratore, una sorta di clausola ad hoc inserita nel contratto di lavoro. Se, infatti, durante il rapporto di lavoro, il dipendente per legge non deve, ai sensi dell’art.2105 c.c. (obbligo di fedeltà), trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore, per limitare l’attività del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto è, invece, obbligatorio, stipulare, per iscritto, uno specifico accordo o patto di non concorrenza. Tale clausola dovrà però seguire specifici limiti di tempo, oggetto, territorio e comportare remunerazione.
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