1992
«Zuliani, hai letto i libri per le vacanze?»
«No.»
«Come no?»
«Ho letto un altro libro, ma era impegnativo.»
«Ah. E che libro è?»
«È un romanzo di Anatolji Grishenko» dico, guardando fuori dalla finestra «Si intitola La scala.»
«Hm» fa la professoressa «Va bene.»
Non è un nome che ti puoi inventare su due piedi.
1998
«Signor Zuliani, l’esame di maturità implica collegare tutte le materie» dice il professore, incalzandomi «Ora come pensa di collegare la filosofia con la fisica?»
«Citando i… versi di un poeta russo.»
«E quale, sentiamo» sogghigna.
«Anatolij Grishenko.»
Il professore sposta lo sguardo: «Mmm… sì, direi che Grishenko va bene…»
«Sìsìsì» fa una professoressa.
2009
«Guardi che a questa riunione i giornalisti non sono ammessi.»
«Mi fa piacere, ma io sono il figlio del professor Anatolji Grishenko, devo consegnare una busta.»
«Ah, scusi. Porta a destra.»
Sta andando in onda in questi giorni la miniserie TV della HBO sul disastro di Chernobyl. Per chi è nato negli ’80 o prima è traumatico, da rivivere, specialmente per quelli come me che sono cresciuti con la fobia per le radiazioni. Quando il reattore n°4 saltò per aria nel 1986 avevo sei anni, ero all’asilo e all’improvviso non si poteva più andare a giocare nei prati, e bisognava evitare a ogni costo di entrare a contatto con la pioggia.
Chi ha figli sa quant’è difficile tenere in casa un bambino quando fuori c’è il sole e un parco.
Le suore s’inventarono una fiaba complicatissima per dirci che il prato era invaso da creature pericolosissime, chiamate nanocurie, e che le fate stavano lavorando per sistemare le cose. Ogni giorno che tornavamo all’asilo, trovavamo sui banchi delle impronte di farina bianca larghe quanto una falange: era la prova che le fate erano passate lì dentro per riposarsi un istante.
Mi ricordo giornate piovose, tutti contro i vetri a guardare se riuscivamo a individuare le nanocurie. Poi passò, principalmente perché bisognava far tornare la vita alla normalità. Passò e nessuno si chiese più se era salutare mangiare roba fresca o inscatolata dopo il 1986. L’economia sarebbe collassata. Così tutti abbiamo mangiato una parte microscopica di quelle radiazioni.
Nel 1990 non ne parlava già più nessuno, quasi non si ricordava più.
Un giorno d’estate, annoiato dai soliti libri, sfoglio svogliato uno di quei quotidiani che leggono i grandi. L’occhio mi cade sulla parola “nanocuria”. In un trafiletto nascosto tra le pagine degli esteri c’è il necrologio di Anatolji Grishenko. Era un pilota di elicotteri che aveva sorvolato il reattore n°4 rovesciandoci sopra sabbia e cemento, fottendosene dei rischi e decollando persino quando gli dicevano di smetterla. Aveva preso la leucemia ed era morto a 53 anni, in una tenda di plastica isolante in USA.
Chiesi spiegazioni a mio padre, lui reputò fossi abbastanza grande per capire e mi spiegò cos’era successo. Alla fine, mi disse che avrebbe potuto essere molto peggio se non fosse stato per Anatolji e pochi eroi che si sacrificarono per salvare miliardi di persone, tra cui me. Senza sabbia e cemento, le radiazioni sarebbero state molte di più. Sconvolto, nel 1990 giurai a me stesso che mai, per nessuna ragione al mondo, avrei dimenticato il nome di quel pilota. E nel corso della mia vita Anatolji è stato capace di tirarmi fuori da un sacco di brutte situazioni. Così tante volte che oramai gli voglio bene davvero.
Nella miniserie della HBO appare solo per qualche istante dentro uno di quegli elicotteri in sottofondo, senza faccia né riconoscimento. Però mi è bastato per avere il groppo in gola, come quando rivedi un amico d’infanzia.