Hong Kong, ultime notizie: cosa sta succedendo nell’ex colonia inglese?
Le ragioni all’origine delle mobilitazioni di massa ad Hong Kong. La paura popolare del sistema giudiziario cinese, le reazioni internazionali.
Decine di migliaia di persone stanno protestando da giorni ad Hong Kong contro una proposta di riforma della legge sull’estradizione. L’inizio del dibattimento sul tema era previsto nella giornata di oggi da parte del parlamento locale. In seguito è stato comunicato, a causa delle proteste, il rinvio della discussione ad un giorno non ancora specificato. Nonostante questo sia la Chief Executive di Hong Kong, Carrie Lam, sia il Ministero degli Esteri di Pechino hanno dichiarato il fermo appoggio al proposito di riforma.
Le nuove disposizioni di legge permetterebbero l’applicazione della giurisdizione cinese su diverse decine di tipologie di reati commessi ad Hong Kong. Ne deriverebbe dunque l’aumento delle pratiche di estradizione degli imputati da Hong Kong a Pechino. Il sistema processuale della Repubblica Popolare è notoriamente debole in termini di garanzie per gli accusati. Detenzioni arbitrarie, confessioni forzate e utilizzo della tortura extragiudiziale sono pratiche documentate da numerose organizzazioni internazionali. Allo stesso tempo, l’imparzialità dell’apparato giudiziario cinese, così come la sua indipendenza dal potere esecutivo, sono come minimo discutibili.
La sede del Parlamento dell’ex colonia britannica, restituita da Londra alla Cina nel 1997, è stata oggetto di tentativo di occupazione da parte dei manifestanti al culmine di un blocco delle vie d’accesso all’edificio durato diverse ore. Le forze dell’ordine hanno reagito con gas lacrimogeni, idranti e spray urticanti, mentre il dipartimento di Giustizia cinese ha descritto le mobilitazioni col termine di “rivolta”. Un marchio che potrebbe significare maggiori pene per i manifestanti coinvolti nelle proteste.
L’accordo “un paese, due sistemi”
I rapporti tra Hong Kong e la Repubblica Popolare Cinese sono da sempre tesi. Tra i due vige dal 1997 un accordo di relazione noto come “un paese, due sistemi”. Secondo i termini dell’intesa, Hong Kong è considerata parte della Repubblica Popolare Cinese, con lo status di Regione Amministrativa Speciale. L’ex colonia britannica ha però mantenuto il sistema amministrativo ereditato dal Regno Unito. In particolare, l’assetto giurisprudenziale basato sulla rule of law, un sistema giudiziario indipendente e sullo svolgimento di elezioni competitive.
Da anni, in parallelo con diversi episodi di mobilitazione che si sono alternati nella regione, Pechino starebbe però stringendo la sua morsa sulle libertà di cui possono godere i residenti dell’ex colonia. Processo che ha provocato numerose insorgenze negli scorsi anni. La nota “rivolta degli ombrelli” del 2014 nacque proprio in opposizione ad un’altra riforma imposta da Pechino. Vale a dire, l’approvazione preventiva cinese della lista dei candidati ammissibili a partecipare alle elezioni di Hong Kong.
Di solo una settimana fa è invece una marcia gigantesca svoltasi per le strade dell’ex-colonia in ricordo del trentennale dell’eccidio di piazza Tienanmen. Quanto avvenuto il 4 giugno 1989 è argomento tabù nella Cina continentale, ma sempre ricordato in quella definita come la “Perla d’Oriente” per via della sua prosperità. In particolare, la libertà di stampa e di informazione sono al centro delle mire di Pechino. Fece scalpore qualche anno fa l’acquisizione del South China Morning Post, noto giornale con sede a Hong Kong, da parte di Jack Ma, leader di Alibaba considerato molto vicino al governo cinese.
Rivolta ad Hong Kong, le reazioni della comunità internazionale
Quanto avviene ad Hong Kong ha suscitato le reazioni della comunità internazionale. Gli Stati Uniti hanno espresso la loro preoccupazione per la riforma, che limiterebbe in maniera forte lo status speciale e l’autonomia di Hong Kong. A stretto giro di posta Pechino ha risposto, intimando a Washington (per via del portavoce del Ministro degli Esteri Geng Shuang) di terminare le sue intromissioni in ciò che riguarda la politica interna cinese.
Poche ore prima dello scoppio dei disordini ad Hong Kong una schermaglia simile era avvenuta sul tema dello Xinjiang, la regione di confine occidentale della Cina. Il Segretario di Stato americano Pompeo si era scagliato contro i “campi di rieducazione” dove sarebbero ospitati forzatamente migliaia di uiguri, etnia di religione musulmana. Per Pechino, i campi sono “centri di educazione vocazionale destinati allo sradicamento del terrorismo e dell’estremismo”. Lo Xinjiang, regione cruciale nell’ambito del progetto cinese delle Nuove Vie della Seta, è stato oggetto di duri scontri negli anni passati tra le forze di polizia di Pechino e la popolazione locale che si oppone all’inasprimento del controllo del governo centrale. Stretta che si esprime anche nel restringimento delle libertà economiche e religiose.
Con l’aggiunta della questione di Taiwan, i dossier relativi ad Hong Kong e Xinjiang sono tra i più impegnativi nell’ambito della politica del “sogno cinese” di Xi Jinping che prevede il maggiore controllo di Pechino su quelle considerate aree storicamente appartenenti al paese in termini politici e culturali.
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