Fotografia e analisi della crescente espansione del populismo di destra nei paesi scandinavi
Paesi guidati per decenni dalla socialdemocrazia, paesi che hanno fatto della tolleranza una bandiera: sono le nazioni scandinave, dove negli ultimi anni a fare notizia sono i partiti populisti dell’ultradestra. Chiedono meno Europa, meno immigrati e sono contrari al multiculturalismo. Da Copenhagen a Oslo, da Helsinki a Stoccolma la loro è una crescita che ha prodotto finora risultati diversi ma che è ispirata dalle stesse battaglie.
In Finlandia, nelle elezioni di qualche giorno fa i Veri Finlandesi hanno ottenuto il 19% e probabilmente faranno parte del prossimo governo. Il partito di Timo Soini è stato la novità (e il protagonista) della politica finlandese degli ultimi anni. Fondati nel 1995, i Veri Finlandesi hanno cominciato a correre dalle elezioni politiche del 2007, quando hanno preso il 4,1%. Da lì in poi è stata una ascesa rapida e costante. Gli argomenti? Quelli classici della destra populista: euroscetticismo, meno immigrati, no al multiculturalismo. Il tutto condito con politiche economiche incentrate sul welfare e un linguaggio diretto e comprensibile.
[ad]Numeri importanti li ha anche il Partito del Progresso in Norvegia, da quasi quindici anni in doppia cifra e convinto sostenitore della necessità di ridurre l’immigrazione per evitare conflitti sociali. Alle elezioni politiche del 2009, il Partito del Progresso ha raggiunto il 22,9%. Nei mesi successivi ha continuato la sua salita e ha ingaggiato un testa a testa con la Destra (l’altro partito conservatore del paese) e con i socialdemocratici. Una rincorsa che nei sondaggi a fine gennaio metteva il partito addirittura al primo posto, con il 27,4%. La crescita è stata stoppata da uno scandalo sessuale che ha coinvolto un alto dirigente e che ha scatenato di riflesso feroci critiche alla gestione della leader Siv Jensen. Rimane comunque un fatto che l’accoppiata Destra-Partito del Progresso ha i numeri per insidiare i socialdemocratici alle prossime elezioni politiche.
In Danimarca il Partito Popolare Danese non fa parte del governo di centro-destra ma garantisce un sostegno esterno fondamentale. Gli uomini guidati da Pia Kjærsgaard vogliono una Danimarca che preservi la propria identità, rigettano il multiculturalismo e una società multietnica, vogliono rendere più restrittive le norme sull’ingresso degli stranieri e non hanno problemi a definire un pericolo l’immigrazione. Profondamente euroscettici, vogliono mantenere la corona come moneta nazionale e non vogliono cedere sovranità a Bruxelles. Anche il Partito Popolare Danese ha visto lievitare i propri consensi nell’ultimo decennio, piazzandosi stabilmente oltre il 10% e crescendo fino al 15,3% alle elezioni europee del 2009.
I Democratici Svedesi hanno numeri più ridotti ma hanno fatto parlare molto di sé alle elezioni politiche dello scorso settembre, quando per la prima volta sono entrati nel parlamento di Stoccolma con il 5,7% dei voti. Molto critici nei confronti delle politiche sull’immigrazione in vigore, anche i Democratici Svedesi sono convinti che una società multiculturale rappresenti un rischio per il paese. Quanto all’Europa, vorrebbero ridiscutere la presenza svedese nella Ue.
Quattro partiti in quattro paesi dalla situazione politico-economica molto diversa, eppure sono tanti gli elementi in comune: euroscetticismo, difesa dell’identità culturale, meno immigrati, più sicurezza. Tutti e quattro sono cresciuti soprattutto nell’ultimo decennio, nel periodo segnato dai processi di integrazione europea, dalla crisi economica e dall’aumento dei flussi migratori. Si tratta inoltre di partiti che parlano a società, quelle scandinave, molto coese e culturalmente omogenee.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
[ad]È in questo contesto che l’aumento degli immigrati nei paesi del Nord Europa ha prodotto tensioni sociali. Quanto siano vere, è per certi versi secondario: conta la paura e la diffidenza che ne sono seguiti. Molti partiti di destra ne hanno fatto un cavallo di battaglia, approfittando dell’incapacità dei partiti per così dire tradizionali a comprendere questi mutamenti e a darvi risposta. I partiti populisti in Scandinavia come nel resto d’Europa hanno invece assimilato subito gli umori di settori crescenti della popolazione e li hanno inseriti nel proprio linguaggio, un linguaggio che è sempre diretto, semplice, scandito da principi riconoscibili. Risultato: il richiamo ai valori tradizionali (cultura, lingua, religione: tutto quello che fa tale un popolo) e la richiesta di inasprire ancora di più le politiche sull’immigrazione, peraltro già severe.
La crisi economica ha fornito un assist decisivo. Con meno soldi in tasca e meno posti di lavoro, in molti hanno guardato con crescente fiducia ai partiti dell’ultradestra che si sono presentati come i difensori degli interessi della popolazione: difensori dell’identità culturale quale patrimonio da preservare, difensori della coesione sociale, difensori della qualità della vita traducibile nello spendere meno per gli immigrati e di più per gli scandinavi, difensori della sicurezza secondo l’equazione “più immigrati = più criminalità”. La campagna elettorale dei Democratici Svedesi nel 2010 è esemplare: un’anziana signora cerca di arrivare in tempo per ritirare la sua pensione ma viene superata da un gruppo di donne in burqa. Il messaggio è chiaro: le società moderne si stanno trasformando in una competizione tra autoctoni e stranieri e i governi in carica stanno consentendo che siano proprio gli stranieri a beneficiare della ricchezza degli Stati che li ospitano, a discapito di chi questa ricchezza ha sempre contribuito a produrla. Stesso discorso si può fare per la campagna di Timo Soini, scandita dallo slogan “Prima i finlandesi”.
Da queste posizioni all’euroscetticismo il passo è breve. Bruxelles è vista come un’istituzione distante, dirigista, che ha spalancato le frontiere e professa integrazione e multiculturalismo; una sovrastruttura che pretende sforzi finanziari da paesi con i conti in regola per salvarne altri meno rigorosi; un organismo che non sa difendere le realtà locali. In pratica tutte quelle politiche che larghi parti della società nei paesi scandinavi guardano con crescente sospetto, preferendo il localismo, l’identità culturale, la certezza di sapere i propri interessi al primo posto.