Di recente è uscito un articolo – rilanciato da agenzie stampa – in cui si dice Mestre detenga il primato per morti di eroina. Hanno fatto svariati servizi, sul nostro hobby segreto, e non solo su quello. Irma, morta a 21 anni, ha fatto parecchio rumore. Fa rumore per forza, quando vedi nove morti per overdose in tre settimane.
Dicono che è per l’eroina gialla, portata dai nigeriani. È più pura di quella che trovi in strada, che di solito ha una percentuale di purezza sull’1%. Quella nigeriana è tra il 20 e il 50%, te la vendono in stazione o nel sottopassaggio. Incolpare di rado serve a qualcosa, e nel caso dei nigeriani è ottuso: il problema viene dalla domanda. E a Mestre c’è da sempre.
Chi non conosce Mestre o l’ha vista mentre era in coda sulla tangenziale non può capirla.
Ci ho vissuto trent’anni della mia vita, girandoci di giorno e di notte dal 1986 al 2013, dal salotto buono ai nascondigli più degradati, e forse non l’ho mai capita nemmeno io. Avevo diciott’anni quando ho deciso che dovevo andarmene il prima possibile e non tornarci.
Non è il Bronx, anche se nell’ultimo periodo la gente che usciva dalla stazione di sera doveva prendere il taxi per fare il chilometro di via Piave o via Cappuccina fino in piazza Ferretto. Ci sono risse e coltellate fin dai tempi del Pool& Company o di Riviera Magellano. Ma non è quella la violenza che t’ammazza, in quella città.
È la tensione.
Tensione sociale, gerarchica, economica, lavorativa, carrieristica, sessuale, quella che nomini a Mestre è al vertice. La senti per strada, la vedi nelle facce della gente, nelle passeggiate alle Barche. Forse chi ci fa un giro non se ne accorge, ma chi ci vive sa di cosa sto parlando. A volte diventa insopportabile e la droga è il modo più spiccio per non sentirla. A vent’anni, a Mestre, un ragazzo ha già provato tutto e si fa in vena il metadone o s’ammazza a 16 anni, a 22, come a 76.
L’eroina non è una scelta come molti dicono, non te la fai facendoti i filmati in diretta Instagram #720. La fumi o la sniffi, te la fai nella gamba perché gli amici e i colleghi non se ne accorgano. Oppure sei dal lato legale e ti fai 30 gocce di Minias ogni mattina che apri gli occhi. Poi c’è Lexotan, Tavor, Aprazolan, trovi le scatolette vuote la sera per terra. C’è un motivo se le farmacie di Mestre sopravvivono nonostante in centro ce ne siano quattro nel raggio di 200 metri.
Essere giovane a Mestre è difficile.
Forse non ne dovrei parlare. Lasciarmela alle spalle con tutti i nomi e le facce che Mestre ha seppellito e che hanno avuto la sfortuna di non essere digitalizzati dai quotidiani. Compagni di scuola, amici, amici di amici, schiacciati da quella tensione che grida un giorno succederà, un giorno cambierà, un giorno scapperò, un giorno arriverà ma non succede mai. Le professioni passano di padre in figlio, i negozi chiudono, le case restano sfitte, la gente mormora e sussurra in un quieto silenzio di piazza la domenica mattina, dove tutti sanno tutto di tutti e la droga fumata da solo in un garage è l’unico segreto che ti puoi permettere.
Perché altrimenti ti vedono, ti riconoscono, riferiscono. Non c’è cosa che Mestre non sappia e su cui ti colpirà appena può. È una città in bilico tra l’ambizione della metropoli e i complessi del paesino, che non ha nulla da dare tranne rabbia, frustrazione e bugie.
Potrei limitarmi a raccontarla e riderci su.
Dopotutto ne sono uscito con danni modestissimi. Da Mestre, dico.
Ma la verità è che se oggi campo scrivendo, se so gestire i vari spruzzi di veleno che ogni tanto m’arrivano per quello che scrivo, è soprattutto grazie a lei. Agli anni del Pool& Company, dei bulli picchiatori elevati a divinità e finiti tra eroina e videopoker, alle decine di facce ancora sbarbate finite tritate dalle mascelle spietate e silenziose, crudeli ma cortesi, che le fanno meritare la fama che ha. A quella città devo più di quanto mi piace ammettere, perché se nasci su una nave che affonda è più facile che impari a nuotare.
Le sue domeniche, i suoi silenzi, le sue vittime me le porto dietro sempre ed è un bagaglio scomodo, ingombrante, a volte patetico, ma che nei momenti peggiori mi permette di dire “sì, ma mi so’ de Mestre”. E non perché mi fa sentire figo: perché mi ricorda che non ci sto più.