Le immagini dell’irruzione dei manifestanti nel Parlamento di Hong Kong hanno fatto il giro del mondo. Ora, dopo che la polizia ha ripreso il controllo dell’edificio a colpi di lacrimogeni, non è facile prevedere come si evolverà la situazione. Molto chiara sembra la posizione di Pechino. La Cina ha parlato di “sfida evidente” nei confronti della sua amministrazione dell’ex-colonia britannica.
La formula di “un paese, due sistemi”, che attualmente regola la vita politica di Hong Kong, difficilmente però verrà messa in discussione. Sia ora, nel caldo delle turbolenze politiche, sia più avanti. Ciò anche a causa dei richiami britannici, via Ministro degli Esteri Jeremy Hunt, sulla necessità di non mettere in discussione quanto pattuito con l’accordo del 1984 sulla restituzione di HK alla Cina. Accordo legalmente vincolante, che perderà di efficacia solamente nel 2047.
Proteste ad Hong Kong, una sfida alla retorica di Xi Jinping
Le parole di Pechino potrebbero però rendere più probabile un mutamento di atteggiamento cinese verso i manifestanti. Finora lo status particolare di Hong Kong, vetrina cinese verso il sistema finanziario globale, ha da molti punti di vista fatto arretrare la Cina da una dura repressione sulle proteste di piazza. Ma a tutto c’è un limite, almeno per Pechino.
Quanto successo nella giornata di ieri, con l’apposizione della bandiera inglese in Parlamento e i graffiti per i quali “Hong Kong non è Cina”, rischia di essere intollerabile per Xi Jinping. L’attuale inquilino di Zhongnanai ha infatti fatto del neo-nazionalismo cinese la sua narrazione-cardine. Dal punto di vista dell’immagine il fatto che le proteste siano eplose nell’anniversario della restituzione di HK alla Cina è un duro smacco per il gigante asiatico.
È quasi sicuro che la proposta di legge sull’estradizione, la scintilla che ha innescato le proteste di massa delle ultime settimane, non verrà riproposta a stretto di giro di posta. La stessa Carrie Lam ha di fatto sospeso la discussione della norma a un tempo indefinito. Più probabile è il verificarsi di una nuova ondata repressiva nei confronti dei manifestanti più in vista nelle proteste, che provi a spaventare la fazione più ribelle della popolazione di Hong Kong rispetto al continuare con le mobilitazioni. Quotidiani vicini al Partito Comunista come il Global Times hanno invitato il governo alla tolleranza zero nei confronti dei manifestanti.
A rischio la figura di Carrie Lam?
Secondo alcuni analisti Pechino potrebbe addirittura “offrire la testa” dell’attuale Chief Executive Carrie Lam, le cui dimissioni sono fortemente richieste dai manifestanti, per poi usare il pugno di ferro in caso di ulteriori proteste. Una posizione che potrebbe essere anche appoggiata da molti esponenti della comunità finanziaria. Questa vede messa a repentaglio dalle azioni di Lam la propria possibilità di continuare a sfruttare i benefici dell’attuale sistema amministrativo dell’ex colonia. Ma allo stesso tempo vorrebbe prima possibile che ci sia uno stop alla conflittualità politica.
Per la Cina quanto sta succedendo è un ulteriore elemento di preoccupazione che si aggiunge alla guerra commerciale e tecnologica con gli Stati Uniti. A differenza dello scontro con Washington, quanto avviene ad Hong Kong sfida però direttamente il modello politico cinese sul tema delle libertà e dei diritti fondamentali. Tutto ciò, per una Cina impegnata da anni uno sforzo enorme di proiettare all’esterno la sua influenza, rischia di essere un problema molto maggiore dei dazi americani.
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