Come milioni di italiani, oramai guardo poco la TV perché film e trasmissioni sono intermezzi tra uno spot e l’altro, e la qualità è modesta. Grazie a Dio viviamo nel 2019 e ci sono mille modi per avere intrattenimento a prezzo irrisorio e di qualità altissima; YouTube, per dirne una, ma anche Netflix o buona parte dei film prodotti negli USA fino al 1965.
Quello che mi piace è che si trovano programmi capaci di arricchirti facendoti divertire. Dovrei anche guardare Temptation Island e quelle robe lì – dopotutto piacciono un sacco al paese reale – ma va oltre le mie capacità; mi viene l’imbarazzo vicario e a livello di sensazioni è come guardare un’autopsia, solo che almeno con l’autopsia impari qualcosa.
Ci sono delle eccezioni
Una di queste è tutto ciò che riguarda la cucina. Non farò il nome, ma c’è un grande programma che con la scusa di premi e competizione riporta l’Italia e i suoi abitanti a parlare di cibo, di ingredienti e di tradizioni, facendo riscoprire quell’arte relegata nelle cucine ma che ci ha resi famosi. E dico “riscoprire” perché al mondo non ci sono solo i quarantenni, ma anche grosse dosi di ventenni per cui tutto è nuovo.
Grazie alle trasmissioni di cucina sono partito dicendo peste e corna dei ristoranti con le porzioni da bimbo e sono arrivato a studiare i menu. Soprattutto, sono arrivato a pensare che di cucina non so un accidente: e questo, di solito, è un grande punto di partenza.
Restare ipnotizzato
Di quelle trasmissioni c’è chi scredita i giudici, chi critica i piatti, chi dice che è tutto costruito. È pacifico che ci sia della fuffa – come in tutti i business – ma che male c’è, se ci fa parlare di tortellini e tecniche di cottura? Sono andato a vedere su YouTube i pranzi che vengono serviti nei ristoranti stellati – molti ci fanno veri e propri reportage – e stringendo i denti per riuscire a sopportare gli youtuber, alla fine sono rimasto allibito.
A trent’anni non mangiavo nei ristoranti stellati perché ero squattrinato; oggi perché mi manca la cultura necessaria a capirne un menu, e butterei via i soldi.
La menata delle porzioni
Essendo io un accanito tradizionalista tendo a diffidare delle novità – e spesso ho ragione – e la mia prima obiezione erano le porzioni. Ero abituato ad affrontare il cibo come un neanderthal, detto anche studente universitario: fame all’ultimo secondo > cibo da ottenere il più rapidamente possibile > trangugiare il più in fretta possibile per timore dei predatori > svenire. In poche parole, tre etti di pasta aglio olio e peperoncino erano già raffinatissime. Sono state quelle trasmissioni a farmi cambiare idea.
Sentire gli accenti, i nomi, vedere gli errori e i successi.
Quella frase “impariamo a nuotare guardandoti affogare” che ho elevato a mio motto personale ai tempi di Mestre, insomma.
Questo non significa che io ci capisca di cucina
Ma da quando Locatelli ha fatto la sua battaglia contro le insalatone – grandi alleate di noi palestrati – sono andato a vedere cosa cucina lui, come le fa lui, ho provato a farle a casa. Ho smesso di comprare sughi pronti e ho cominciato a farmeli io. Ho scoperto il piacere di cucinare, invece di farsi da mangiare. E sarà anche ridicolo, ma mi sono sentito un po’ più italiano.