Dei buoni fruttiferi postali emessi dopo il 1986 se n’è parlato, se ne parla e se ne continuerà a parlare tanto. Le controversie in merito sono molteplici e i casi dei risparmiatori che si sono visti rimborsare meno di quanto spettava loro vanno analizzati singolarmente. Causa di questa problematica il famoso decreto ministeriale del 1986, che influiva sul rendimento dei buoni sottoscritti, di fatto dimezzandolo. Ma a far rumore, di recente, è stata anche una sentenza della Corte di Cassazione che ha dato ragione a Poste Italiane, prendendo a riferimento il Codice Postale del 1973, che di fatto permetteva al Gruppo di modificare il tasso di interesse dei buoni al ribasso, facendo valere il principio di retroattività, e dunque giustificando di fatto una modifica che avrebbe avuto effetti anche su buoni sottoscritti prima di una certa data. Tali circostanze sono rimaste in vigore per circa due decenni e mezzo, ovvero fino al 1999, quando è stata abrogata la possibilità di modificare il rendimento dei buoni in essere, sia al rialzo sia al ribasso, come forma di tutela verso i consumatori sottoscrittori dei buoni.
Buoni fruttiferi postali Serie O-P-Q: la controversia
La questione resta aperta per tutti quei risparmiatori che hanno sottoscritto buoni fruttiferi dopo il 1° luglio del 1986, spiega l’avvocato Marisa Costelli per Konsumer Italia. “Dopo l’entrata in vigore del decreto del 1986, Poste avrebbe dovuto emettere buoni della Serie Q”, le sue parole riportate da Repubblica. Tuttavia, per qualche tempo, ha continuato a usare vecchi moduli delle serie O e P, con tassi di interesse superiori ma non più applicabili per via dello stesso decreto. “La legge consentiva alle Poste di utilizzare, fino a esaurimento, solo i buoni della Serie P (e non quelli della serie O) a patto che l’impiegato apponesse due timbri, uno sul fronte e uno sul retro”.
Sul timbro posto sul fronte avrebbe dovuto esserci scritto Serie P-Q, mentre sul timbro apposto sul retro bisognava indicare i nuovi rendimenti trentennali. In buona parte dei casi, denuncia l’avvocato, “Poste o non ha timbrato i vecchi buoni, o li ha timbrati in modo sbagliato indicando solo i nuovi interessi, ma non la rendita”. Da qui l’illusione di diversi risparmiatori che pensavano come la rendita fosse rimasta la stessa, ma alla fine, dopo 30 anni, si sono ritrovati a riscuotere cifre inferiori a quelle che si attendevano.
Cosa avrebbe dovuto fare Poste Italiane
La regola avrebbe voluto che Poste realizzasse un timbro per ogni taglio dei buoni visto che la rendita cambia in base a quanto capitale viene investito. Tuttavia è stata optata la soluzione del risparmio e così è stato utilizzato solo un timbro con gli interessi dei primi 20 anni, ma così facendo il rendimento degli ultimi 10 anni restava invariato. Ed è proprio questo errore che ha scatenato una serie numerosa di ricorsi da parte dei contribuenti che si sono affidati alle tutele legali e delle associazioni dei consumatori. Di fatto quei moduli avevano valore di contratti, come hanno riportato spesso nelle loro sentenze Corte di Cassazione e Corte Costituzionale, il che ha consentito ai sottoscrittori di quei buoni di vincere i ricorsi e di ottenere così il rimborso effettivamente spettante.
Poste Italiane: Bfp, ABF prescrizione dal settimo anno
Buoni fruttiferi postali: cosa controllare prima di presentare ricorso all’ABF
Naturalmente ogni caso va preso singolarmente a sé, nello specifico. Quindi, prima di presentare ricorso all’Arbitro Bancario Finanziario, sarebbe opportuno verificare alcune cose. Prima di tutto la data di emissione, che dovrebbe essere successiva al 1° luglio 1986. Infine bisognerà visualizzare la Serie: a questo punto, ricorda il quotidiano, si aprono due possibilità:
- Serie O: l’ABF può dare ragione al risparmiatore;
- Serie P: bisognerà controllare se sono stati apposti i timbri P-Q sul fronte e la tabella dei nuovi rendimenti della Serie Q di tutti e 30 gli anni di sottoscrizione.
I rendimenti dei Bfp sottoscritti negli anni Ottanta erano decisamente diversi da quelli di oggi, pertanto chi presenta ricorso e lo vince ha la possibilità di ottenere cifre piuttosto elevate. Come ricorda Aldo Bissi di Ridare, il costo del ricorso all’Abf costa 20 euro e non necessita di assistenza legale: provarci è bene, anche se l’esito positivo non è sempre scontato. Ogni caso, ribadiamo, va analizzato a sé.
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