Non si placa il durissimo scontro politico in corso ad Hong Kong. Quello appena trascorso è stato l’ottavo weekend consecutivo di proteste nella Regione Amministrativa Speciale del sud della Cina, e la tensione non accenna a diminuire.
A due mesi dallo scoppio delle prime dimostrazioni contro la nuova legge sull’estradizione, al momento sospesa ma non cancellata dal programma di governo locale, anche nelle scorse giornate di sabato e domenica ci sono state ore di scontri tra manifestanti e polizia. Il bilancio è di 49 dimostranti arrestati nel corso dei due giorni di manifestazioni che hanno paralizzato le strade della città e bloccato le operazioni della comunità finanziaria.
Gli scontri si sono concentrati intorno alla sede del Central Government Liaison Office, ufficio di rappresentanza di Pechino ad Hong Kong. Dal punto di vista politico, le richieste della piazza si sono allargate. Non più solo il ritiro della contestata legge, ad animare le mobilitazioni sono l’ottenimento delle dimissioni della governatrice Carrie Lam e di una inchiesta indipendente sull’atteggiamento della polizia.
Ad essere sotto scrutinio dei manifestanti sono in particolare i fatti di Yuen Long dello scorso 21 luglio, con l’attacco da parte di uomini armati in borghese nei confronti di gruppi di dimostranti che facevano ritorno a casa dopo le mobilitazioni. Per i manifestanti si tratterebbe di appartenenti a cosche mafiose, che agirebbero in combutta con la polizia.
Pechino difende Lam e la polizia di Hong Kong
Pechino ha reagito lunedì con una conferenza stampa speciale sui fatti. Quanto sta avvenendo nell’ex colonia britannica ha “gravemente danneggiato lo stato di diritto, l’ordine pubblico, l’economia e le vite dei cittadini”, ha dichiarato Yang Guang, uno dei due portavoce dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao, interno al Consiglio di Stato (l’equivalente del nostro esecutivo) della Repubblica Popolare Cinese.
I portavoce hanno ribadito il fermo appoggio di Pechino alla governatrice Carrie Lam e alle forze dell’ordine. Queste ultime sono sotto accusa, anche da parte di alcuni esponenti del Congresso americano, per la loro gestione delle proteste. Proprio contro i tentativi di alcune “figure irresponsabili” di sfruttare la crisi di Hong Kong per destabilizzare la Cina si sono scagliati i due portavoce, che hanno inoltre richiesto alla popolazione dell’ex colonia britannica di opporsi ai “manifestanti violenti”, definiti “un gruppo ristretto”.
A trent’anni da TienAnMen, una grande sfida per Xi Jinping
Lo stesso intervento dell’esercito per riportare l’ordine non è stato escluso dai portavoce. La possibilità è prevista dalla mini costituzione che regola Hong Kong, nota come Basic Law. D’altro canto, una tale ipotesi significherebbe un innalzamento del livello molto alto, e rischioso per la stessa Cina.
Quest’anno ricorrono infatti i trent’anni dai fatti di TienAnMen. Una nuova azione repressiva di massa avrebbe impatto molto duro sull’immagine della Cina, proiettata sempre più all’esercizio di una leadership globale. La politica del “Chinese Dream” di Xi Jinping, animata anche dalla piena riunificazione di regione come Hong Kong e Taiwan nel sistema politico-amministrativo cinese, sta trovando un grande ostacolo sul suo percorso.
In un passaggio della conferenza stampa i portavoce hanno però dichiarato la necessità di intervenire politicamente su temi come la disoccupazione e l’accesso alla casa per la popolazione giovanile di Hong Kong. Un segno di distensione, spia della volontà di Pechino di iniziare a cercare una soluzione politica con i manifestanti? Un tentativo cosmetico di calmare le acque, sperando in un affievolimento delle proteste? Lo scopriremo nelle prossime settimane.
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