“Generale, l’armadio parla o comunque non si sente molto bene”
Berlino, 30 aprile 1945
Quella che nei sogni di Hitler sarebbe dovuta essere la città Ideale è ridotta a polvere e macerie, mentre per le strade rimangono a combattere donne e bambini. Nel bunker, Hitler si è appena sparato assieme a Eva Braun. Attorno a un tavolo, quel che resta dello Stato maggiore tedesco valuta il da farsi. Goebbels delega al capo della Wehrmacht, Hans Adolf Krebs, di raggiungere il comando sovietico per trattare la resa. Krebs è stato nominato da un mese, quando le condizioni di Berlino erano già disperate. Arriva al quartier generale russo all’ora di cena e chiede udienza al generale Vasily Chuikov.
Nessuno si aspettava una cosa del genere
Quando il piantone riferisce al generale chi c’è alla porta, Vasily va nel panico. L’intero quadro ufficiali è al fronte e lui sta finendo di mangiare assieme a Konstantin Michailovic Simonov e Yevgeniy Dolmatovsky, corrispondenti dal fronte che indossano divise militari senza gradi, e Matvey Blanter, compositore, nel suo bel completo grigio antracite. C’è anche un sottoufficiale, di cui non si sa il nome. Domanda al piantone quanti sono, lì sotto, e quello risponde che sono in tre: Krebs e la sua scorta.
Il codice militare prevede regole internazionali fin nei minimi dettagli che possono sembrare ridicole, finché non si presenta la situazione. Vasily non può ricevere una delegazione di ufficiali nemici che vogliono trattare la resa da solo; servono testimoni ufficiali e a livello psicologico, trovarsi in una stanza da solo con tre nemici, pur destinati a perdere, può far loro venire strane idee. Ma non può dire a Krebs di ripassare. Così dice al piantone di prendere tempo, poi fruga nei cassetti a caccia di mostrine, medaglie e gradi presi ai caduti. Le appunta freneticamente sui due corrispondenti e gli ordina di non parlare mai, per nessuna ragione.
Poi si volta verso Blanter.
Blanter non si può travestire. Non hanno il tempo di trovare un’uniforme ed è un omino minuto con l’aria gentile e le spalle spioventi; uno di quelli che non avrebbe mai passato la selezione per la truppa, figurarsi quella degli ufficiali. Fuori sente i passi che si avvicinano e in una frazione di secondo capisce che non farà nemmeno in tempo a farlo uscire. Apre un armadio, lo afferra per un braccio e lo butta dentro.
Il timido Blanter tenta di pigolare proteste, ma il generale gli fa presente che se osa muoversi o emettere un fiato lo farà fucilare. Poi chiude le ante, ma la chiave cade sul pavimento nello stesso istante in cui bussano alla porta. Vasily fa mettere i due corrispondenti dietro al tavolo sull’attenti, ci si sistema in mezzo e dà l’avanti.
Hans Kreb è ridotto male,
è pallido, sudato, ha l’anima di Berlino stampata sulla faccia. La sua scorta gli somiglia, ma cercano di tenere un contegno. Sono ragazzi giovani e robusti, e dalle informazioni che i russi hanno, probabilmente ha passato in rassegna tutti gli uomini che gli sono rimasti per scegliere quelli dall’aspetto più sano e marziale. Fa sedere il tedesco e lo imita. Hans senza preamboli comunica la morte del Fuhrer.
È una notizia sconvolgente, con ripercussioni sulla guerra e sul mondo. Vasily per un istante tentenna, poi bluffa dicendo di saperlo. Si dice sia stata la faccia dei due corrispondenti a tradirlo, comunque Hans non ci crede. Dalla tasca tira fuori un documento ufficiale, firmato da Goebbels, dove propone la resa della Germania a certe condizioni.
Dall’armadio proviene un tonfo.
Krebs e i tedeschi si girano, i russi no. Dato che sembrano non averlo sentito, ricominciano la trattativa. Vasily sa bene in che condizioni versa Berlino, e ora che non c’è più la figura del Fuhrer a tenerli in piedi nell’attesa del martirio, soldati e cittadini crolleranno. Perché dovrebbe concedere delle condizioni? Se i tedeschi – o quel che ne resta – vogliono la resa, dovrà essere totale e incondizionata.
L’armadio ora geme.
I tedeschi si voltano di nuovo, e di nuovo il generale non batte ciglio. Hans sposta gli occhi da lui all’armadio, mentre la sua scorta sposta il peso da un piede all’altro, premendo i polsi contro la fondina. Chi c’è, lì dentro? Un prigioniero? Una spia? Un traditore? Sul volto del generale non c’è nulla. Né paura, né disagio, solo quella gelida indifferenza russa di cui Hans aveva letto nei libri di Storia, riguardo all’ammiraglio Kolchack. Riprendono la trattativa; Hans chiede condizioni “soddisfacenti alle nazioni che avevano sofferto più di tutte la guerra”. Vasily prende fiato per parlare, ma non fa in tempo.
«Ooh…» fa l’armadio,
poi le ante si spalancano e Blanter crolla a terra privo di sensi, mentre i tedeschi urlano e schizzano in piedi con le mani infilate nelle fondine. Dal corpo guardano il generale, che è ancora seduto con le mani incrociate sul tavolo. Chiama i piantoni e ordina che lo portino via, mentre i tedeschi si rimettono a sedere. Tutto avviene con molta fretta ed efficienza, poi la trattativa ricomincia senza che vi siano domande.
Hans esce dieci minuti dopo con il compito di comunicare a Goebbels che l’unica resa accettata sarà totale e senza condizioni.
Sia Goebbels che Kreb si uccideranno il primo maggio, lasciando i berlinesi ad affrontare le loro scelte politiche. Nel film Downfall, il regista aveva pensato di mettere questa scena, poi la tagliò perché disse che il pubblico non l’avrebbe presa sul serio e avrebbe rovinato l’atmosfera del film. Anche girandola, scelse di non mettere l’uscita a sorpresa di Blanter, perché troppo comica.
Eppure è accaduta davvero.
Semplificare la narrazione la rende accattivante e comprensibile, ma alla fine la rende stereotipata. Ci abitua a credere che il mondo sia fatto di azioni perfette e geni del male, superuomini, buoni e cattivi. A me affascina come in uno dei contesti più drammatici della Storia moderna, ci sia stato spazio per un siparietto imbarazzante, ridicolo – e quindi, umano.