Domenica in una piscina popolare di periferia qualsiasi
Ieri sono stato in una piscina verso Legnano, una di quelle che mette musica latinoamericana a volume da discoteca fin dalle 10 di mattina. Dentro la fauna era sulla quarantina, parecchie famiglie e qualche adolescente. Cinquantenni con tatuaggi di Vasco o giapponesi con fiori e draghi, qualche disegno maori, nomi dei figli in gotico, asciugamani con le squadre di calcio.
L’acqua della piscina è fresca d’Antartide, ma questo non ferma la bestiale allegria che domina la scena. Dopo due ore di bailar paella mi amor te quiero la donna si mette le cuffie avvolgenti con Peggy Lee e rifiuta di rivolgermi la parola. Per farmi perdonare la scelta del posto decido di portarle qualcosa da bere e mi dirigo verso il bar.
Attraverso cinquantenni in costume animalier con gli
occhiali da sole e l’occhio lungo rivolto a due trentenni, che a tavola e in
palestra han fatto un lavoro assai migliore del mio. Tengono addominali e dorsali
tirati e non li ho mai visti seduti. Un conciliabolo di cinquantenni parlando
di calcio, nel tempo che impiego a superarli conto sedici minchia, nove
madonne, sette Guardiola, cinque Cancelo. Mi trovo davanti a uno sbarramento di
bambini, il padre è un cinquantenne con tribali sbiaditi e catena d’oro che mi
guarda storto.
«Permesso» dico al bambino.
«Cosa?! COSA TI HA DETTO?!» salta su l’uomo, facendo girare mezza piscina.
Il bambino si sposta e ripete la mia parola. Il padre fa “ah” e torna a sedersi. Arrivato al bancone trovo mojiti fatti con le bustine di zucchero, Peroni da 66, mortadella e paella. Un angolo coi tappeti e lanterne alla marocchina coi narghilè, dove un altro cinquantenne con occhiali a specchio sta seduto a fumare e ascoltare due ragazzini, che non credo arrivino ai 18. Lui spiega che è nella natura dell’uomo quella di andare con tante donne, lei obietta che se lo facesse lei lui si arrabbierebbe, lui dice che certo, è una cosa diversa. Aggiunge una battuta che non capisco e il cinquantenne ride, la ragazza anche, incrociando le braccia.
BABILONIA, dicono le casse, e bum bum bum. Arrivo al banco e opto per birre, perché dall’aria che ha il barman se gli chiedessi qualcosa di più complicato finirebbe in tragedia. Una signora sulla quarantina mi si attacca di fianco, ancheggiando e battendo le mani in pareo H& M e costume paillettato. Il barman sporge l’orecchio perché siamo talmente sotto la cassa che non si capisce nulla e chiede di ripetere l’ordine.
«Sei sicuro che non preferisci un mojito?» grida.
E lo chiede perché è il cocktail su cui un locale ha più risparmio. La quarantenne continua ad ancheggiarmi addosso e fa il segno di V con le dita, capisco l’immonda truffa e faccio “no” con le mani. Lei smette di ballare e se ne va. Con due Peroni in mano, trionfante come se fossi in via del Guasto a Bologna, rifaccio la strada al contrario attraversando una mastoplastica additiva ipoteticamente coperta da un costume con la bandiera russa. Sta strattonando un uomo e gli sibila qualcosa coi denti di fuori. Vorrei capire, ma el movimiento Babilonia copre il monologo.
Passo di fianco a una sdraio dove vedo Chi, Di più, Novella 3000. Raggiungo la mia dolce metà, porgo la Peroni della pace, lei tentenna ma accetta. Beviamo in silenzio, impossibilitati a parlare dalBUNZ suono BUNZ di chiBUNZ teme BUNZ il silenBUNZ come la mortBUNZ. Torniamo a casa quando il sole scende, con le orecchie che fischiano e la pelle che scotta.
«Ti ricordi quando…» inizia la mia futura moglie, ma si interrompe.
Non indago.