Sulla definizione di Leadership. Seconda puntata: il PD

Pubblicato il 29 Aprile 2012 alle 21:38 Autore: Gianluca Borrelli

Con le elezioni del 2001 il candidato premier fu Rutelli. Come abbiamo già analizzato nella puntata precedente quest’ultimo non ha in alcun modo i requisiti del vero leader, quindi consideriamola una parentesi (ricordo una feroce battuta credo di Maria Novella Oppo su L’Unità che ironizzava sulla sua incapacità di essere leader, qualcosa tipo “Rutelli ha detto che non si muove da dove è, costringendo il centrosinistra a non avere un leader ancora a lungo…”).

Tramontata la breve parabola rutelliana, a prendere le redini della coalizione di fatto fu Piero Fassino, dato che Veltroni era diventato sindaco di Roma, con la cui segreteria del principale partito (che dal 1998 si chiamava DS) coincise la più incredibile stagione di vittorie del centrosinistra. Una sequenza mai ripetuta di successi a tutti i livelli.

Senza carisma, senza grandi mete, un ottimo amministratore Fassino non può essere additato come esempio di leader ma certo ha molti più meriti e molte più caratteristiche positive (come i suoi stessi concittadini torinesi gli stanno tributando) di quanto si pensi. Gli mancava qualcosa per essere davvero leader e per capire quanto non avesse davvero una presa completa su quello che succedeva nel partito basti ricordare la famigerata telefonata dell’ “abbiamo una banca”. Chi l’ha ascoltata con attenzione ha capito perfettamente (persino i suoi peggiori detrattori) che Fassino era assolutamente innocente. Era chiaro come il sole che non ci aveva capito nulla, chiedeva di cifre a caso e con una notevole confusione per poi sparare quella frase, ritrattata due secondi dopo, dando evidenza di non aver capito cosa stesse succedendo. Quella scena fa capire più di ogni altra cosa che Fassino non era un vero leader così come non lo era stato Rutelli (solo un po’ più sfortunato elettoralmente del suo collega torinese). D’Alema invece aveva capito tutto benissimo. Come sempre.

[ad]Arriviamo finalmente a Veltroni che, dopo 13 anni dal primo tentativo e dopo 6 anni da sindaco della capitale, ha finalmente un mandato pieno da segretario del primo partito della coalizione del centrosinistra. Un mandato che più pieno non si può.
Grandi illusioni che si infrangono pesantemente in una carenza di controllo e di organizzazione delle strutture territoriali del partito, una incapacità totale nello scegliere le persone nei posti chiave e di cambiarle se necessario (l’archetipo di questo tipo di leadership fu espressa da Abramo Lincoln durante la guerra civile americana, quando si accorse che stava perdendo contro le truppe del generale Lee, cambiò tutta la catena di comando fino a quando non trovò Ulisses Grant che fu capace di invertire le sorti di quella guerra) e una mission che appariva confusa col solo scopo chiaro di non voler pestare i piedi a nessuno.

Un messaggio del genere inizialmente può suscitare interesse e ascolto ma poi se non si carica di significati risulta talmente vuoto da diventare un boomerang.

Anche l’uso delle parole non fu dei migliori. Per fare un esempio Veltroni ripetè ossessivamente la parola riformista come se quella da sola fosse un programma, una meta, un ideale.

Peccato che di per sé sia una parola vuota per chiunque.
Che vuol dire “riformista”? Uno che vuole fare le riforme, ok ma quali?
Riforme che tuteleranno il bianco ma anche il nero, il dolce ma anche il salato, il pubblico ma anche il privato.
Sì ok ma in concreto? Boh…
Un deficit comunicativo alla lunga gravissimo da parte di qualcuno che era stato visto invece come il miglior comunicatore del centrosinistra, e qui c’è un grande equivoco perché molti confondono la capacità di comunicare con la “mediaticità” di un personaggio. Sono due cose diverse che inseriremo alla fine di questo tema in una tabella collegandola ad ognuno dei leader di cui si è parlato.

Grande mediaticità quindi ma comunicazione vuota. Alla fine questa strategia ebbe il risultato di non creare alcuna antipatia verso di lui da parte dell’elettorato ma nemmeno un vero entusiasmo, se non tra quelli già convinti da un pezzo, o una espansione della base elettorale.
Era un messaggio vuoto di contenuti molto più di quanto le iniziali premesse lasciassero intendere e quindi foriero di delusioni ancora più brucianti da parte del popolo della sinistra.

Allora secondo la nostra indagine fu Veltroni un vero leader? No decisamente, visto quanto detto sulla sua visione e sulla “mission”. Non fu nemmeno un buon gestore della ordinaria amministrazione (come invece Fassino era stato), e il caso Sardegna (che fu tra le cose a portarlo alle dimissioni da segretario) fu l’emblema della sua incapacità di controllare e gestire il partito.
Tante premesse e poca sostanza, troppo poca.

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L'autore: Gianluca Borrelli

Salernitano, ingegnere delle telecomunicazioni, da sempre appassionato di politica. Ha vissuto e lavorato per anni all'estero tra Irlanda e Inghilterra. Fondatore ed editore del «Termometro Politico».
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