Quella volta in falegnameria, 1999
Ho visto saltare indice, medio e metà anulare a Christian come fossero pop corn. Lui aveva gridato una bestemmia e ora stava in silenzio con un mezzo sorriso, pallido ma tranquillo, mentre tutti urlavano e gli si facevano attorno tamponando i moncherini. La sega circolare continuava a girare con i brandelli di stoffa, la segatura per terra era diventata rosso scuro e io mi sentivo svenire.
Era il sesto mese che lavoravo in falegnameria, Chris era lì da un anno, e prima di quel momento il solo sangue che avevo visto erano le solite labbra e zigomi spaccati delle zuffe da adolescenti.
Mi siedo e vedo tutto come se fosse un film proiettato su un televisore sfocato, le orecchie che mi fischiano e i colori sbiaditi. Chris arrivava alle cinque di mattina che già puzzava di ganja; nei capannoni a gennaio muori di freddo, finché non cominci a lavorare. Lui aveva tenuto la camicia di flanella con le maniche abbassate e mentre passava una trave di truciolato sulla sega, il polsino s’era impigliato.
Era successo in una frazione di secondo.
ZIIIIIto to toc.
Era il ’99, il settore era già in crisi e parecchie falegnamerie avevano chiuso. La mia teneva duro risparmiando sulle mille lire. Mentre Christian veniva portato in pronto soccorso, al capo arriva una telefonata da un’azienda di supermercati. Avevano dato una commessa di 50 scrivanie a una falegnameria che aveva chiuso per fallimento. Ora la proponevano a lui per un prezzo straordinario, ma doveva consegnarle in due settimane. Erano le scrivanie del reparto giocattoli, quindi con un design giocoso: ogni gamba era diversa – sfera, piramide, cubo, rombo – e la forma irregolare.
Farne 50 in due settimane era già difficile.
Farne di così strane, difficilissimo.
Farle senza Christian gravitava nella sfera dell’impossibile.
La squadra era composta da Mario, cinquantasette anni, baffi gialli per colpa delle MS e fiero di suo figlio entrato nei pompieri. Giovanni, un vecchio artigiano quasi settantenne che Silvano, il padrone, aveva assunto un po’ per pietà – la bottega di Giovanni era fallita – un po’ perché una volta ogni mai i clienti chiedevano fregi e incisioni. Il Tedesco, un enorme ticinese sulla cinquantina che s’era fatto cinque anni di galera e stava sulle palle a tutti. Poi c’ero io, il padrone e la segretaria.
Se il padrone prendeva la commessa salvava la falegnameria, ma se non riuscivamo a consegnarle avrebbe dovuto pagare una penale che l’avrebbe fatto fallire. Se non prendeva la commessa, avremmo potuto andare avanti ancora qualche mese finché qualche macchinario non cedeva. Avevamo muletti anni ’70, un vecchio Fiat 900T che per partire aveva bisogno di spinta e un Ducato 1981 coi pneumatici lisci.
Lui quando tornò dal pronto soccorso ci spiegò il problema e ci chiese cosa volevamo fare. Noi prendemmo i sacchi a pelo.
Per quindici giorni abbiamo costruito scrivanie notte e giorno, dormendo a turni sulle assi che arrivavano dai camion o in cortile, quando il rumore delle seghe e della smerigliatrice nelle orecchie diventava insopportabile. Mi ricordo l’odore dolciastro della segatura che ti entrava dappertutto, ti restava nelle narici, ti costringeva a fumare Lucky strike per non sentirlo più. Il tonfo della sparachiodi, i sacchi di segatura da staccare dagli aspiratori che per un ragazzino di 19 anni pesavano come incudini, la segretaria che ci portava panini dove il prosciutto era un’ipotesi.
Christian nemmeno pensò di restare a casa, venne il giorno dopo ad aiutare con la mano buona, e con la stessa puzza di erba addosso. Mi ricordo il contadino che viveva di fianco; s’informò di come mai era tutto acceso – i suoni gli spaventavano gli animali – e alla fine quando ci vide si impietosì portandoci derrate di prosciutti, salami e formaggi.
Ma più di ogni altra cosa, mi ricordo il silenzio.
Parlavamo solo se avevamo qualcosa da dire, ed era molto poco. Persino il contadino arrivava, ci lasciava la roba e se ne andava senza aspettare che ringraziassimo né che pagassimo. Alla fine siamo riusciti a consegnarle tutte e 50; quando l’ultimo carico lasciò il capannone erano le due e mezza di mattina. Non ci furono feste, applausi, pacche sulle spalle, niente. Solo un giorno di riposo. Avevamo fatto qualcosa di eccezionale e nessuno ne parlava come fosse l’impresa della vita.
L’avevamo fatto e basta.