I casi di Cud errato o inesatto – nell’ambito del rapporto di lavoro tra azienda e dipendente – non sono purtroppo così remoti. Tanto che la legge certamente ammette che il lavoratore possa contestare i dati non corretti, riportati in tale certificato. Vediamo allora più nel dettaglio come comportarsi in queste circostanze e quali sanzioni sono in gioco.
Cud errato: quando?
Anzitutto un po’ di chiarezza circa il documento di cui stiamo parlando. Il Cud, oggi propriamente detto CU (Certificazione Unica) ma in passato invece denominato certificato unico dipendente, è una certificazione dei redditi da lavoro dipendente, da pensione, da lavoro autonomo o da redditi diversi, nella Repubblica Italiana. In altre parole, tale documento è un particolare modello con il quale il datore di lavoro dichiara al Fisco i redditi versati ai propri dipendenti nell’anno e le ritenute compiute. La Certificazione Unica non attiene esclusivamente ai lavoratori subordinati, ma anche spetta al committente, che la consegna ai lavoratori parasubordinati e autonomi; nonché ai pensionati e ai disoccupati cui va l’indennità INPS.
Le ipotesi di Cud errato, anche se oggi occorrerebbe chiamarlo come sopra indicato, sono davvero svariate. Pensiamo ad esempio a tutti i casi relativi a lavoratori, il cui contratto di lavoro sia cessato e che, tuttavia, reclamano giustamente una correzione dei conti, dato che il datore di lavoro non ha corrisposto loro l’ultimo stipendio nonché la tredicesima, per esempio. È una situazione da sanare, dato che in sede di dichiarazione dei redditi, il lavoratore si troverebbe con tasse da pagare su un reddito mai effettivamente incassato.
Ma il problema può essere inerente anche ai lavoratori con rapporto di lavoro in essere. Per esempio, può succedere che l’azienda abbia dichiarato, per sbaglio, lo stipendio di un dato mese, secondo un valore più alto rispetto a quello percepito; oppure può aver dimenticato di inserire delle cifre invece necessarie. Altra grave negligenza è quella legata al fatto che, nel Cud errato, emerga che il datore di lavoro non ha adempiuto agli obblighi fiscali e contributivi verso il proprio dipendente. Vediamo allora cosa fare per risolvere la situazione.
Quali verifiche e controlli fare e come contestare le irregolarità
Il lavoratore può attivarsi autonomamente per capire se il Cud è errato oppure è stato compilato in modo corretto. Può infatti controllare che le voci addizionate, facenti riferimento a competenze e alle trattenute, inserite in busta paga, corrispondano alle voci indicate nel modello Cud. Occorrerà prestare attenzione anche ai casi di errori non formali, ma sostanziali: può infatti succedere che le voci del Cud errato coincidano con le indicazioni dei cedolini paga, ma invece al lavoratore è stato concretamente versato uno stipendio minore.
Pertanto, laddove il lavoratore si accorga di un Cud errato, dovrà anzitutto rivolgersi al proprio datore di lavoro, affinché questi provveda quanto prima alla correzione delle cifre. L’azienda potrà così rimediare all’inesattezza, entro 60 giorni dal termine per l’invio alle Entrate pagando una sanzione ridotta, pari a 33,33 euro. In particolare rileva l’ipotesi dell’errore sostanziale, inerente cioè stipendi maggiori rispetto a quelli effettivamente percepiti (e non la mera discordanza tra dati del Cud e della busta paga). In queste circostanze, qualora l’azienda non voglia operare alcuna rettifica, è giusto che che il lavoratore faccia pressione verso il datore di lavoro, attraverso una comunicazione scritta con pec o raccomandata, tramite assistenza di un avvocato.
Laddove il datore di lavoro, a seguito di questa lettera non si adopera a correggere il CUD e a consegnartelo, sarà opportuno rivolgersi all’Agenzia delle Entrate competente per fare denuncia. Le sanzioni in gioco sono piuttosto ingenti, e oscillano tra un minimo di 258,23 euro e un massimo di 2.065,83 euro. E, come ovvio, gravano sul datore di lavoro, non sul dipendente.
Esiste anche la possibilità, nei casi in cui il datore di lavoro non voglia correggere spontaneamente, di rivolgersi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro o al sindacato di riferimento, al fine dar luogo ad un tentativo di conciliazione. In caso di esito negativo, è necessario portare il proprio datore di lavoro in Tribunale, con una causa che sarà decisa dal giudice del lavoro. C’è però un elemento non di poco conto, che aiuta a veder riconosciute le proprie ragioni: la busta paga, infatti, costituisce prova del credito, motivo per cui è ammesso il ricorso all’iter del decreto ingiuntivo.
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