Quando muore qualcuno non cambia niente. Smette di esistere, e salvo qualche situazione un po’ imbarazzante con i social network tipo un walltext di “condoglianze”, svanisce nel nulla. Il mondo prosegue come se non fosse mai esistito e galoppa verso nuove notizie, nuove indignazioni, nuove condivisioni. Per i parenti di quella persona è un’esperienza allucinante. Il mondo ti concede una, forse due settimane di pausa, poi si aspetta tu torni a essere quello che sei sempre stato.
Ma non funziona così.
Per te, il mondo è diventato un posto alieno e sconosciuto. C’è un prima e un dopo, quando muore qualcuno di importante. All’inizio rimani stranito da come tutto sia uguale pur non essendolo, poi con i mesi, gli anni, ti abitui. A quel punto ti rendi conto che la gente attorno a te ha più paura della morte di quanta non ne avesse duemila anni fa. Non ne parla, non ne discute; la nasconde nell’armadio degli abiti invernali e la lascia lì.
L’unico modo che si ha di parlare della morte, oggi, è ridendoci, e questo ha fatto la fortuna di Taffo ma ha anche causato tanti problemi. Quando un nostro caro tira le cuoia, ci è stato insegnato a dimenticarlo il prima possibile e a non parlarne più per non deprimere, per non rovinare la serata, per non essere pesante, perché che ansia!
Lo vedi dovunque.
Non c’è più l’abito nero al funerale, il nero a lutto per qualche tempo, il nastro alla porta o i crisantemi. Il corpo del defunto viene vestito da altri invece che dai parenti. Non c’è nemmeno un convivio dopo la cerimonia, ognuno se ne va per conto suo e son affari delle pompe funebri. Il 2 novembre, spesso, la gente lo usa per andare in ferie da qualche parte. È diventata persino una battuta, l’inutilità del “thoughts and prayers”. Prendono in giro i cattolici che ricordano qualcuno nelle proprie preghiere.
Molti pensano sia coraggioso parlare della morte ridendo, mentre è l’opposto: pochissimi, oggi, hanno il coraggio di affrontarla senza nascondersi dietro le cazzate. Ti puoi anche trincerare dietro le battute, ma l’inconscio non lo metti a tacere coi meme. I vuoti emotivi, le domande senza risposta, le storie in sospeso non le risolvi così. Ti vengono a prendere.
Questo ha ripercussioni enormi sulla società
Quando è mancata mia nonna, al funerale sono arrivati i parenti da un’altra regione. Ci siamo trovati a casa sua a Venezia per fare due parole, poi dato che si avvicinava l’ora ho detto che andavo a cambiarmi. Quelli stavano uscendo di casa e mi hanno guardato stralunati, e hanno detto che non ci avevano pensato. Nella chiesa di santa Maria degli assunti, io e Leonora eravamo gli unici in nero; gli altri erano in polo, bermuda e scarpe da ginnastica oppure vestitini a fiori e cappello, come se fossero turisti in gita mentre guardavano la bara partire per san Michele.
Erano tristi, ma non ci avevano pensato.
Eppure hai un momento solo per salutare chi se ne va. Quella ritualità che oggi viene considerata tradizionale e obsoleta, forse era il modo che avevano inventato i nostri antenati per riuscire a convivere con la morte. Li abbiamo tolti, abbiamo iniziato a tenerci tutto dentro, e quella roba rispunta fuori con ansie, angoscie, paure immotivate, fobie, crisi di panico che tanti tengono sotto controllo con la chimica.
Ma non funziona, perché credo la morte e l’identità siano collegate più di quanto ci piace dire – o immaginare. Abbiamo tolto ogni ritualità alla morte non perché ci fa paura, ma perché abbiamo paura di essere dimenticati.
O forse, peggio ancora, di non essere mai esistiti.