Ha destato scalpore, negli scorsi giorni, l’espulsione dal noto social network Facebook del movimento Vox, da poco lanciato dal filosofo Diego Fusaro e preceduta, di pochi giorni, dalla esclusione dal medesimo social network di alcune forze politiche – discusse ma legittime – italiane.
Sembra quindi che, dopo anni in cui si è tanto dibattuto circa il c.d. “diritto all’oblio” e, cioè, del diritto a non essere ricordati, specie dai motori di ricerca, in relazione a vicende passate spiacevoli, si imponga, adesso, all’attenzione la tematica ad essa speculare e, cioè, il diritto, invece, ad essere presenti sulla rete.
Social network: il diritto ad essere presenti in rete
È indubitabile, difatti, che i maggiori – e spesso unici – canali di accesso ad internet siano costituiti in primis dai motori di ricerca, seguiti immediatamente dai social network.
In particolare, sotto l’aspetto economico, oggi sempre al centro del dibattito, “i servizi di intermediazione online possono essere cruciali per il successo commerciale delle imprese che utilizzano tali servizi per ricevere i consumatori”, espressione contenuta nel “considerando” n. 2 del Regolamento UE 1150/19, di prossima entrata in vigore al fine di promuovere “equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online”.
Se, difatti, è indiscutibile che l’accesso ai motori di ricerca sia, ormai, essenziale ai fini della visibilità commerciale di qualsiasi impresa (ed anche dei professionisti) non può negarsi che anche la vita di relazione e, su tutto, l’esercizio di una legittima attività politica, non possano ormai prescindere dalla visibilità sul web.
È innegabile, difatti, che l’eventuale esclusione dal social network – o dal motore di ricerca – di un soggetto fisico ne cagioni la “morte sociale”, così come l’esclusione di un’azienda ne possa decretare la morte commerciale e che, infine, l’esclusione di un movimento politico possa costituire, senz’altro, uno sbarramento insormontabile per la circolazione delle idee cagionando, per altro, una disparità rispetto a quelle forze politiche che, al contrario, possano diffondere liberamente i propri programmi in rete.
Social Network: chi decide sul diritto ad esserci
Ma chi decide, allo stato, chi debba essere presente o meno sulla rete ed in base a quali criteri ed a quali norme?
L’argomento in questione sconta il generale clima tra il mitologico, l’errato, il leggendario che pervade, specie sulla stampa c.d. mainstream, qualsiasi tematica che riguardi la rete, tanto che l’idea diffusa nel pubblico ne risulta confusa e distante dal reale assetto normativo e giurisprudenziale.
È bene premettere che tanto i social network quanto i motori di ricerca sono costituiti da imprese private straniere e, segnatamente, da imprese poste al di fuori del territorio dell’Unione Europea.
L’idea, però, che ciò li ponga al di fuori della potestà normativa dell’Unione – e dei singoli Stati – è da ritenersi del tutto errata e, de jure condendo, al di fuori del quadro giuridico generale.
Se, da un canto, si sconta senz’altro un’evidente “timidezza” da parte degli Stati, e della stessa Unione, nel pervenire ad una regolamentazione matura, adeguata, esplicita e compiuta del settore – o, perlomeno, a fornire un adeguato enforcement al quadro normativo già esistente – dall’altro canto, in linea di principio, non può certo ritenersi che un’attività, quale quella dei motori di ricerca e dei social network, idonea ad incidere su diritti fondamentali e sullo stesso andamento dei mercati, possa svolgersi in base all’arbitrio, o comunque ad un’autoregolamentazione di mero good will proveniente dal fornitore del servizio stesso.
L’intervento dell’UE con il regolamento 1150/19
Difatti, la stessa Unione Europea, nel già citato Regolamento UE 1150/19 ha preso atto della circostanza che “Anche in assenza di una relazione contrattuale con gli utenti titolari di siti web aziendali, i fornitori dei motori di ricerca online possono … agire di fatto unilateralmente in un modo che può essere iniquo e quindi dannoso per gli interessi legittimi dei loro utenti titolari di siti web aziendali e, indirettamente, anche dei consumatori dell’Unione.”
In tale contesto, deve quindi suscitare sicuro allarme, in chiunque abbia a cuore l’esercizio delle libertà democratiche, che l’esclusione di forze politiche da un social network – forze politiche discutibili quanto si voglia, ma allo stato mai dichiarate illegittime dallo stato di appartenenza – possa avvenire sulla base dell’asserita violazione delle “condizioni di servizio” poste dal social network stesso ed in base ad una propria, autonoma, decisione.
Non vi è chi non veda, difatti, come il consegnare l’accesso al principale canale comunicativo alle scelte e decisioni di un privato, provocherebbe un sicuro e letale vulnus – condizionandolo sino a determinarlo – al libero esercizio delle libertà politiche.
Se oggi, difatti, le “condizioni di servizio” potrebbero essere considerate violate da forze politiche “discusse” – ma, giovi ribadirlo, legittime – nulla impedirebbe che domani il fornitore del servizio mutasse di segno escludendo, invece, a suo arbitrio, altre e diverse forze politiche.
Nel ricordo di 25 anni fa
In tale contesto, sorprende l’assoluta mancanza di un serio dibattito pubblico specie in chi, come chi scrive, ha ancora vivo nella memoria lo strepito mediatico che causò, nel lontano anno 1994, l’impegno politico assunto da un imprenditore titolare di concessioni televisive nazionali.
Risulta quindi difficile non andare con la mente al celebre sermone del pastore Niemoller, partorito dalla penna di Brecht che, rimasto silente mentre venivano perseguitate categorie a lui sgradite, si ritrovò senza nessuno che protestasse quando, infine, vennero a prendere proprio lui.
Ma il silenzio del dibattito, se non, al contrario, l’adesione entusiasta, coinvolgono altri temi che dovrebbero suscitare pari allarme, in chi tiene in massimo conto le libertà, quale il tema della c.d. fake news e dell’hate speech.
L’idea, infatti, che la verità, o meno, di una notizia possa essere decretata da una qualsiasi autorità – per altro, allo stato, di dubbia collocazione costituzionale – piuttosto che dal buon senso e dalla libera determinazione del lettore (oltre che dalla credibilità, conquistata “sul campo” della fonte) ricorda pericolosamente tutto quanto si è letto – e, fortunatamente, non vissuto – circa le “verità ufficiali” dei regimi totalitari, piuttosto che delle inquisizioni più o meno Sante.
Social Network ed hate speech
Analogamente, sembra che venga classificato, almeno dalla stampa, come hate speech tutto ciò che non sia in linea con il progressimo più spinto, con il rischio che venga etichettato, come hate speaker anche chi magari, per mere ragioni anagrafiche, non si sia aggiornato rispetto all’ultima vulgata radical.
Ma, tornando al tema dell’esclusione dal social network, a dispetto di chi plaude perché vengono tacitate forze politiche sgradite, deve segnalarsi che, chi le leggi le applica in concreto (e cioè i Tribunali) la pensa anche in maniera diversa, circa la libertà del fornitore del servizio di escludere gli utenti.
Si segnala, ad esempio, che il Tribunale di Pordenone, ha ordinato, ex art. 700 c.p.c. alla società Facebook Ireland Ltd “l’immediato ripristino del profilo personale del ricorrente presso il proprio portale” sull’assunto che, il predetto profilo, fosse stato chiuso pur “in assenza di una chiara, seria e reiterata violazione da parte dell’utente delle condizioni contrattuali o della normativa con ciò violando anche…il diritto di libera espressione del pensiero come tutelato dalla Costituzione”. (cfr. Tribunale di Pordenone, sezione civile, proc. n. 2139718 R.G. ordinanza del 10.12.18).
Vi è da dire, inoltre, che un intervento attivo del fornitore del servizio con riguardo ai contenuti degli utenti, in forza delle c.d. condizioni del servizio, pone lo stesso in una posizione giuridicamente discutibile.
Difatti, il fornitore di un servizio internet, non è di regola responsabile dei contenuti pubblicati da terze parti, e non è soggetto ad un obbligo generale di sorveglianza degli stessi.
Tuttavia, con giurisprudenza formatasi prevalentemente in materia di proprietà intellettuale, è stato ritenuto dai Tribunali che proprio il dotarsi del fornitore del servizio di stringenti regolamentazioni dei contenuti – oltre alla sorveglianza c.d. attiva degli stessi – possa fargli perdere questo stato di “neutralità”, con relative conseguenze in ordine alle responsabilità.
Il diritto e le norme sono poste a tutela del debole. Il forte è legge a sé
Quando, infine, si paventa ogni tentativo di produrre una normazione compiuta, e matura, dei fenomeni internet come “bavaglio alla rete” ad avviso di chi scrive, non si fa un buon servizio, innanzitutto, all’intelligenza del pubblico.
Giova ricordare, difatti, che le norme, in uno stato di diritto, assolvono allo scopo di regolamentare anche i rapporti di forza inevitabilmente diseguali, in vista del c.d. bene comune.
È paradossale, difatti, quanto sostenuto da alcuni commentatori, secondo i quali lo Stato da un lato ben potrebbe sottoporci coattivamente a prelievo fiscale piuttosto che – almeno in alcuni stati, in sede penale – metterci perfino a morte, mentre non sarebbe abbastanza “maturo” per regolamentare la rete.
Forse, è andato perduto un concetto che gli antichi romani, che di diritto certamente ne “masticavano”, avevano invece ben chiaro e cioè che il diritto, le norme, sono poste a tutela del debole. Il forte non ne ha bisogno. Il forte è legge a sé.
Avvocato Andrea Caristi
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