Tra palme, brezza marina e Grande Depressione
Prima di Google maps, delle agenzie di viaggi, prima di Internet e dei satelliti, viaggiare era una cosa diversa. Il viaggio era un’avventura lunga da cui tornavi cambiato; basti pensare alle carovane dei greci, che partivano con vasi di terracotta seminati e tornavano con gli alberelli.
Il mondo era un posto enorme, ignoto, pieno di popoli, animali e atmosfere mai viste. Fino al 1900 è andata così, quando i panfili – detti vapori – attraverso rotte difficilissime portavano pochi fortunati “nelle Americhe” o “nell’estremo oriente”. Chi non poteva viaggiare, sognava.
Negli Stati Uniti la Grande Depressione del ’29 aveva ridotto sul lastrico milioni di famiglie e devastato l’umore della nazione.
Ernest Gantt è uno dei pochi privilegiati a essersi salvati, anche grazie a suo padre che quando tutti investivano a caso in borsa “perché lo fanno anche Groucho Marx e Charlie Chaplin” aveva detto che non era un buon segno, e s’era salvato il patrimonio.
Ernest lo spende in viaggi nelle località più esotiche, ed è un viaggiare vero. Una volta lì impara gli usi, i costumi, i sapori, si adatta fino a diventare uno del posto. Poi prende l’aereo e se ne va ai Carabi, in Jamaica, in Cina, a Cuba.
Nel 1931 Hollywood lo chiama come massimo consulente di cultura esotica; il paese ha un gran bisogno di evasione e vuole vedere su schermo gente allegra e posti lontani che non vedrà mai: The squaw man, Tarzan, La mummia, Shangai express, Bird of paradise fanno incassi notevoli.
Ernest si trasferisce nella fabbrica dei sogni nel 1933, quella Hollywood babilonia raccontata da Kenneth Anger dove ogni giorno c’è un’amante, un delitto e uno scandalo. Compra un piccolo chioschetto e lo riarreda con gli oggetti che s’è tirato dietro dai suoi viaggi, e altri se li fa spedire, trasformandolo in un vero e proprio angolo di tropici nel centro di Hollywood.
Dall’esterno pare abbiano calato con un elicottero una baracca polinesiana, ma lì non suscita scalpore – almeno non nella città che creò Babilonia a grandezza naturale nel 1916. Dentro ci mette il rum, liquore che ha conosciuto a Cuba e che negli USA ancora non avevano preso piede. Come ha imparato nell’isola, lo mescola a lime, menta e zucchero. Poi si domanda perché limitarsi.
Ma non è nemmeno la metà del lavoro.
Si autoproclama “Don the beachcomber” e il suo talento è soprattutto l’ospitalità. Ha capito il popolo americano, le sue disgrazie, e sa come metterlo a suo agio. Nel locale tutto è tropicale, dal personale alla musica al tipo di ospitalità. Conosce i clienti, ci parla, è socievole. Dietro il banco, intanto, fa fare ai cocktail passi da gigante.
Se Jerry Thomas è stato l’Omero dei cocktail, Don è Shakespeare. Nasconde tutte le sue ricette, cambia i nomi agli ingredienti dandogli solo sigle anonime e crea persino un suo distillato, Don’s mix. Dieci anni di sbronze in paesi tropicali pressoché vergini da contaminazioni l’hanno reso un talento unico al mondo. I suoi cocktail sono capolavori complicatissimi e tutt’ora ineguagliati.
Perché chiunque ci prova, fallisce.
Quando Don muore, ai suoi aiutanti resta solo un libro di sigle e di ricordi. Serviranno anni di lavoro – e di assaggi – per decifrarli tutti. Alcuni sono andati perduti, ma i suoi cavalli di battaglia come lo Zombie, l’Hurricane, il Pearl diver e il Missionary Downfall sono stati decifrati e hanno lo stesso sapore e ingredienti del 1940.
Se avete dei baristi abbastanza pazzi da farveli, ovviamente.
Quand’è estate e siete costretti a lavorare in città, non c’è niente come uno dei suoi Tiki cocktail – che poi diventerà una vera e propria cultura – capace di farvi sentire ai Caraibi. Non è un intruglio sexy né adulto, ma è un sorso d’infradito, crema solare e sabbia quando un lunedì sera d’agosto vi siete appena slacciati la cravatta.
La storia dello Zombie, e del motivo per cui tutti i barman del mondo si rifiutano di servirne più di due a testa, ce la teniamo per il prossimo agosto.