Non ci vergogniamo dell’Italia, ma della sua narrazione

L'Italia vista dallo spazio
Non ci vergogniamo dell’Italia, ma della sua narrazione

Quando ho raccontato il recupero dei boat people sono stato inondato di mail; alcune venivano da giornalisti ormai anziani che all’epoca dei fatti “non ricordavano assolutamente”, che “forse avevo letto ma”, “mi sembra di ricordare però”. Succede spesso che nei commenti o nei messaggi privati i lettori mi chiedano perché i media non raccontano storie e personaggi che ci fan fare bella figura.

Sembra quasi esistesse un diktat per cui dobbiamo fare per forza la figura dei caciottari. Alcuni suppongono dipenda dal programma di Storia che si ferma a settant’anni fa – quando va bene – altri accusano la scarsa memoria storica. Posso provare a dire l’impressione che mi sono fatto io studiando il dopoguerra e gli anni di piombo.

“Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti”.

L’uomo ha più volte cercato di realizzare utopie che su carta funzionavano, ma non tenevano conto del fattore umano. Ricordiamo l’Esperanto, lingua costruita a tavolino con l’idea di unire i popoli senza però far prevalere una lingua sull’altra così da non offendere nessuno. Tentarono anche di insegnarla nelle scuole negli anni ’90 e fallì.

L’essere umano non è un elemento neutro; ha una sua personalità, idee, preferenze, e non le puoi piallare. Al massimo puoi sopprimerle a bastonate per qualche tempo, col risultato che rispunteranno fuori triplicate alla prima occasione.

Questo negli italiani è ancora più forte.

Siamo anarchici farciti di storie e tradizioni centenarie che spuntano da ogni lembo di terra. Vai negli USA e ogni 400 chilometri fermati a chiedere qual è il piatto tradizionale, risponderanno sempre la stessa cosa; fai 3 chilometri in Italia e non solo ti risponderanno tre cose diverse, ma saranno tutte vere. Mi hanno sempre fatto ridere quelli che riguardo all’immigrazione gridano preoccupati della nostra identità nazionale.

Cioè, sono talmente inconsapevoli della nostra cultura da credere che tre disperati possano anche solo scalfirla. Il nostro è un popolo con un’identità titanica. Puoi pure trapiantarci l’ISIS, tempo tre anni staranno gestendo un traffico di soppresse clandestine e smadonnando perché l’amante vuole il prosecco DOCG.

Ma immaginate di essere degli utopisti.

Uomini e donne che sognano un mondo senza confini, senza differenze, senza disparità; per riuscire a costruirlo a tavolino prima devi piallare tutte quelle differenze, quelle tradizioni, quei ricordi che rendono una massa di persone un popolo. Un uomo senza sangue e senza terra in teoria sta bene dappertutto. Non combatte per concetti tipo confini, proprietà o identità; diventa un cittadino del mondo, un semplice essere umano.

È una manovra che si vede bene nell’architettura contemporanea; un edificio di Londra, New York, Milano o Berlino è intercambiabile, non ha una connotazione identitaria. Vetro, acciaio e linee minimali che potrebbero essere ovunque. L’idea della classe intellettuale dello scorso secolo era spinta dai migliori propositi, di cui sono lastricate le strade per l’inferno. Non puoi togliere a un uomo il suo sangue e la sua terra perché non solo non funziona, ma ottiene il risultato opposto.

L’aveva raccontato bene Orwell su 1984, facendo ringhiare a Winston “io mi ricordo” durante le torture. I nostri eroi e i nostri eroismi, le nostre imprese e i nostri successi, non è che sono stati cancellati; sono stati fatti passare in sordina privilegiando una narrazione dove l’Italia, l’italiano e l’italianità sono cose obsolete o negative. Questo però non ci ha resi cittadini del mondo, anzi, ci ha resi un popolo di immemori esterofili imbarazzati e incattiviti che vedono ovunque minacce.

Ma siamo molto più forti di come ci raccontano.