Stanotte un barchino con a bordo una cinquantina di uomini, donne e bambini si è ribaltato a un miglio da Lampedusa. Ventidue si sono salvati, tredici donne sono affogate e otto bambini risultano dispersi. Ora, nessuno di noi ha idea di cosa si prova ad affogare, o a sentire la voce di nostro figlio che ci chiama dal buio; nessuno ha idea di cosa pensa un essere umano mentre muore a due miglia dal traguardo della sua vita.
È un’atrocità che si ripete ciclicamente e che passa sulle pagine dei giornali tutti i giorni da anni, tanto che nessuno ci fa caso. Non sono nemmeno più persone, ma dati: l’anno scorso ne sono affogati di più, quest’anno di meno, è merito di questo, è colpa dell’altro.
Di tutto questo, le testate più blasonate si affrettano sui social per fare a gara a chi di fianco alla notizia scrive la peggiore bestialità. Le riportano con cura, premurandosi di elencare gli orrori non in ordine cronologico ma in crescendo, naturalmente condannando fermamente. E perché io, che sto attento a non aprire la sezione commenti alle notizie o ai video di YouTube, devo trovarmeli riproposti tipo memorandum?
Perché non fanno lo stesso coi commenti solidali, o sensati, o pacati? Facile: perché nutrono la malriposta speranza che io clicchi, mi indigni a mia volta e facendo leva sulla mia emotività gli regali un commento altrettanto emotivo.
Questo è il problema della narrazione italiana.
Lì fuori ci sono persone straordinarie capaci di ragionare, con una vita felice, persone che amano, un lavoro gratificante e hanno di meglio da fare che commentare disperati che affogano. Perché indipendentemente dalla fede politica del momento, se uno si compiace o ride della morte di qualcuno è un miserabile con una vita altrettanto.
Anche se il morto non era una brava persona.
Eppure basta staccarsi da Internet per trovare uomini e donne che fanno volontariato, o donano il sangue – alcuni con grossi testicoli persino il midollo – fanno beneficienza, mettono il proprio talento al servizio del paese. Solo che non vengono raccontati, e se succede, la loro narrazione ha come architrave il “ma non è tutto bello come sembra”.
Prendete le trasmissioni d’inchiesta.
La costruzione del reportage è sempre la stessa. Prima si racconta qualcosa di bello, poi lo si demolisce punto per punto trasformandolo in un porcile di corruzione, crudeltà, illegalità, cattiveria. Quando il demolito querela, non c’è smentita. Ci si limita a pagare il risarcimento perché è comunque molto inferiore agli introiti.
La diffamazione è diventata materia prima.
Questa roba si è così radicata nel nostro cervello che quando ho scritto un articolo sulla giornata dei disabili a Castelporziano, qualcuno fece notare che magari a un chilometro da lì c’era una discarica abusiva. Magari è anche vero, ma perché senti il bisogno di aggiungerlo? Forse perché ogni cosa attorno a te sta venendo raccontata così da quando sei nato. L’Italia è il paese della mafia, del malaffare, e adesso anche degli italiani razzisti e inumani.
E uscirne è difficilissimo.
Devi andare a cercare i trafiletti, la colonnina non guardarmi è tutta fuffa, devi cercare tra le corna di qualche sgallettata e i top cibi anticancro per trovare un progetto di reinserimento del carcere minorile, o il fatto che gli italiani stanno timidamente ricominciando a fare beneficienza. Siamo così assuefatti alla narrazione negativa di noi, del nostro popolo, che l’abbiamo elevato a riflesso automatico.
Non sto dicendo che il nostro paese sia la patria della legalità – anzi – ma che c’è modo e modo di raccontarla. E soprattutto invece di andare con l’aspirapolvere nelle cloache perché è facile, noi giornalisti potremmo fare uno sforzo in più. Perché poi leggi “11 motivi che mi rendono orgogliosa di essere italiana” e vorrei avere i capelli per metterci le mani dentro.