I social sono il regno dell’odio, sì, quello che viene insegnato in televisione
Come moltissimi italiani nati nel 1980, son cresciuto in una famiglia che a un certo punto ha rinunciato alla televisione. L’ho avuta da piccolo e in adolescenza, così da potermi godere robot giapponesi, McGyver e Supercopter. Poi, credo attorno al ’94, basta. In casa si potevano vedere solo videocassette. Il mio rapporto con l’intrattenimento e il media per definizione terminò allora.
Nel 2003 scoprii Internet e per un insieme di fortune diventò, assieme ai quotidiani nei bar, l’unica fonte d’informazione. Oggi ce l’ho, ma la guardo come m’è stato inculcato fin da bambino: telegiornali e DVD.
Non per snobismo, ma per limiti miei
10 minuti di trasmissione e 20 di pubblicità sono l’equivalente della versione trial di una app; mi fa incazzare e la disinstallo. Soprattutto, le trasmissioni che su Twitter appassionano l’Italia mi lasciano a bocca aperta. Forse se avessi continuato a guardarla sarebbe diverso, più o meno come vederti ogni giorno allo specchio e non accorgerti di invecchiare.
Ma trasmissioni come La vita in diretta, Temptation island, Uomini e donne o Chi l’ha visto, per me, sono inguardabili. Non è che mi irritano, è proprio che sembra di veder torturare animali sotto metanfetamina. Scimmie in balia delle proprie emozioni più ataviche e bestiali incapaci di ragionare o di comunicare.
Parliamo come ci viene insegnato.
Si fa un gran parlare dei social, dell’odio in rete, della retorica animalesca che ci si trova. Ma sono una conseguenza, non la causa. La popolazione italiana da anni viene educata a parlare, ragionare ed esprimersi dalla televisione pubblica che da quanto ricordo io è diventata la versione sotto steroidi di quella che c’era.
Oggi ho la possibilità di parlare con registi e autori di trasmissioni; mi dicono che la gente, messa davanti a una telecamera, è disposta a fare qualsiasi cosa. Basta dargli il LA e loro partono in deliri grotteschi, che intrattengono anche sedicenti intellettuali – parecchi, per la verità – che seguono queste trasmissioni e ne discutono appassionatamente, chiamandolo – haha – trash.
Chissà perché questa parola inglese.
Ve lo dico io: trash è l’equivalente de “il web”. Un bel nome inglese per giustificare e legittimare il sadismo e il suo mercato. Abbassare continuamente gli standard perché “fa share”. A parte che lo share fino a qualche anno fa erano 5000 tizi a cui era stato montato un meter – i quali decidevano per 70mln di italiani – e oggi sono 30,000… siamo sicuri che sia una buona idea far decidere i limiti di alcool consentiti per guidare agli alcolisti?
Perché non è una risposta facile come sembra. Quando “lo share” premia qualche abominio, lui viene subito emulato e potenziato dai concorrenti. Davanti a chi si disgusta si risponde “ma fa ascolti”. Che discorso è? Anche l’eroina vende, non per questo sei meno maiale se la spacci.
“La soluzione è semplice”, dicono alcuni
La seconda obiezione che viene fatta a chi questiona la qualità dell’intrattenimento e dell’informazione televisiva è “se non ti piace, non guardarla”. E infatti non la guardo – salvo poi ritrovarmela sulle bacheche social sotto forma di gente educata a parlare come in TV – ma non tutti hanno questa alternativa. Buona parte del paese non ha accesso a un Internet decente, non ha ricevuto un’educazione digitale, è cresciuta in famiglie che a cena gridavano contro il telegiornale e poi ci si sistemavano davanti fino ad addormentarsi per “staccare la testa”.
Sì, la stessa menata per cui guardavano il grande fratello, o i cinepanettoni. Se nel caso di chi sa far di conto è una balla in cattiva fede – per “staccare la testa” scopi, se hai troppi pensieri bevi, guardi commedie brillanti o cose interessanti su Youtube, leggi, studi roba che ti piace, giochi – nel caso di chi non ha un’istruzione è una frase drammatica ma sincera. Devi sapere di avere un’alternativa.
E questo la televisione si guarda bene dal dirlo.