La regola del degrado
Questo fine settimana m’è tornata in mente la mia partecipazione a un concorso musicale nazionale di tanti anni fa, evento che per via indiretta mi cambiò la vita. Io e il mio DJ ci provammo due volte, per due volte arrivammo alle finali regionali. L’anno dopo, il festival cambiò le regole: vincevano tutti un premio, non esisteva un primo classificato; all’improvviso a nessuno interessava più parteciparci, men che meno a noi.
Lo sport, stringi stringi, sono le sue regole.
Prendete un match di boxe e togliete le regole, avremo un tizio che prende una mazza, spacca la testa dell’avversario disarmato e vince. Per chi ha tendenze psicopatiche può essere divertente, ma di sicuro non sarebbe uno sport seguito e amato da miliardi di persone. Quello che appassiona è la capacità umana di vincere ad armi pari e rispettando le regole, riuscendo ad aggirarle con strategia, sfruttandole a proprio vantaggio. Stimiamo chi prevale con onestà, bravura e intelligenza sul suo avversario e schifiamo chi prova a farlo barando.
Detestiamo le regole, eppure sono loro a dare un senso
Prendete un evento, un premio, un festival, un campionato, qualcosa a cui per partecipare servono requisiti o il rispetto delle regole. È qualcosa di esclusivo, cioè che esclude chi non li ha o le rispetta. Più i requisiti e le regole sono severe, più sono gli scartati e più saranno considerati speciali quelli che riescono a farne parte.
Per un elementare principio umano, la stragrande maggioranza di noi più sa che una cosa è selettiva e più vuole entrarci. La psiche umana però è complessa; su cento che lo vogliono, cinquanta proveranno a entrare, venti diranno che a loro non interessa, trenta contesteranno le regole di selezione e chi le ha passate.
Immaginate un concorso di palloni.
Viene indetto un concorso per decidere il pallone più sferico del mondo. Il primo anno partecipazione e affluenza sono solo degli addetti ai lavori e appassionati; il pallone vincente appare sul campo di gioco dei mondiali. L’anno dopo al concorso si presentano nuovi pallonari e la gente accorre a vederli; i pallonari emergenti più informati si affrettano a partecipare. L’anno dopo ancora, il concorso raggiunge l’apice con folle in visibilio e pallonari da tutto il mondo che cercano di entrarci. L’anno dopo ancora c’è così tanta affluenza che le regole e i requisiti si fanno più selettivi; la palla dev’essere sferica e di marmo.
Tutti i wannabe protestano.
L’anno dopo ci sono sit-in davanti alla sede, insulti alla giuria che l’anno successivo cede, creando una sottocategoria/premio di consolazione di palloni di legno. Apriti cielo: perché il legno sì e la gomma no? Alla fine arriva lo splendido a dire che l’uovo è la nuova sfera e che il concorso dei palloni è fatto da vecchi bacucchi; viene applaudito da tutti. L’anno dopo la giuria cede e fa entrare cani e porci. L’anno dopo, al concorso non vanno i professionisti perché è inutile, e i bari non ci vanno perché tanto ci entrano cani e porci.
Perché non è più “esclusivo”
È lo stesso principio per cui il primo album di un artista è sempre il migliore. Non è che poi si è “venduto”, o un festival si è “sputtanato”, o un premio si è “imborghesito” e via farneticando. È solo che prima lo conoscevamo in pochi e ci sentivamo – volevamo sentirci – un’elite. È quello che dice Salmo, uno che di questo meccanismo ne sa parecchio. Quando sentiamo parlare di qualcosa di “esclusivo” ci attrae e al contempo ci infastidisce perché ci mette alla prova.
Possiamo scegliere di impegnarci e lavorare per entrarci anche a costo di fallire, oppure cercare di svilirlo, uvavolpando e boicottando finché riusciamo a distruggerlo o entrare sfondando la porta. Nel primo caso dopo un istante di esaltazione – distruggere qualcosa di bello è l’orgasmo degli impotenti – ci deprimeremo perché privi di scopo. Nel secondo caso, una volta riusciti a entrare barando, ci deprimeremo per il principio di Groucho Marx: non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me.