1943: la storia di un eroe italiano, probabilmente
Nel primo novecento l’Italia del sud sono paesini isolati dove i contadini vengono schiavizzati dai mezzadri e schiacciati dalla mafia. Vivono in baracche fatiscenti dove patiscono la fame e le malattie, tra reduci impazziti della Grande guerra, mutilati e briganti. Nelle piazze e tra le panche delle chiese corre voce di una terra lontana, dall’altra parte del mondo, dove tutti possono diventare ricchi. L’America, quella dove lo zio del cugino della madre del vicino è andato tanti anni fa.
È 1921, Salvatore ha otto anni, ultimo di sette fratelli.
È un ragazzino macilento con gli occhi grandi e un cespuglio di capelli neri arruffati. Non va a scuola, impara a leggere grazie al prete e nei campi fa quel poco che il suo corpo gli permette. La sua famiglia è indebitata col mezzadro che si fa minaccioso; bestie ammazzate, minacce, occhiate lugubri e improvvisi silenzi quando passeggiano la domenica. La famiglia raccoglie le poche cose che ha, sale su vecchi treni sovraccarichi e attraversa l’Italia fino al porto di Genova.
Qui vengono rapinati dei loro ultimi risparmi da uno dei tanti armatori privi di scrupoli, che li carica su una nave merci assieme a tonnellate di altra carne umana diretta a New York. Sono 1200 anime stipate come animali che mangiano pane raffermo con l’olio, polenta strusciata su fette di pecorino, aringhe sotto sale per poi vomitare poco dopo per il mal di mare.
Suo nonno, già anziano, muore per i disagi del viaggio e viene gettato fuoribordo per paura di epidemie. Salvatore in quel viaggio vede rivolte, epidemie di colera e tifo, impara a farsi voler bene bollendo le camicie per uccidere i pidocchi. Una volta arrivato in America, il suo cespuglio di capelli arruffati viene rasato da uomini vestiti di verde che gli fanno una gran paura. Ricorda file interminabili, pianti, fame, suppliche in lingue che non ha mai sentito.
È il 1929, Salvatore ha sedici anni e vive a Little Italy
Ogni giorno nel quartiere c’è una rissa, un morto o un arresto. La loro casa è un tugurio dove dormono in sedici tra puzza di piedi, fumo di sigarette e dischi di Caruso, che il padre mette su un grammofono scassato mentre legge l’Avanti!. Sono litigate per i soldi, urla e mani si alzano man mano che il vino nella bottiglia scende.
Ogni volta che può, Salvatore sgattaiola nei cinematografi e s’innamora del sarcasmo di William Powell, dello stile di Gary Cooper, la classe di Clark Gable circondati da ragazze come Mae West o Myrna Loi. Cerca di imitarli, mentre gli americani lo guardano come fosse un ratto. “Voi italiani fate schifo, siete peggio dei negri”, gli gridano per strada. Un giorno passa davanti a un ufficio militare e fa l’unica cosa che gli permette di uscire quel quartiere.
È il 1932, Salvatore ha vent’anni e si arruola in aviazione
Non sarà mai un pilota, naturalmente. Finisce a fare lo sguattero, impara in fretta che il lavoro non ha lingua né pelle, ma parla chiaro. Lavora il doppio degli altri, cerca sempre un’opportunità per emergere e grazie a un irlandese figlio di immigrati impara a sistemare i motori. Lo promuovono aiuto meccanico, mentre pian piano perde i contatti con Little Italy e la sua famiglia. Suo padre muore per una brutta manganellata durante dei disordini, i suoi fratelli finiscono in prigione o riemergono dalle acque del porto con tre buchi in pancia durante la guerra del contrabbando.
Si innamora di Raquel, una cameriera di Brooklyn in un bar dove fino all’anno prima se chiedevi un Bee’s Knees ti passavano sottobanco del gin pessimo stemperato da miele e limone. È la prima americana che se lo fila ed è lei a raccontargli che l’Italia è cambiata. Un certo Mussolini l’ha resa grande; ora tutti hanno il bagno in casa, non ci sono disoccupati, i treni arrivano in orario, è un paese temuto e rispettato da tutti, che ha rispolverato l’idea dell’impero romano e delle colonie. Gli mostra una pagina del New York Times dove troneggia la foto di 11 idrovolanti che atterrano a Rio de Janeiro.
È il 1940, Salvatore ha ventotto anni e riscopre da dove viene.
Non deve più vergognarsi delle sue origini. Diventa più maturo e malinconico, sogna di portare Raquel in quella campagna che ricorda da bambino, quando i suoi erano poveri ma avevano una famiglia. Studia e diventa addetto agli armamenti. Il 7 dicembre 1941 succede Pearl Harbor. Il giorno dopo, Roosevelt firma la proclamazione 2525 a cui seguono la 2526 e 2527; la sera dello stesso giorno nelle case di tedeschi, giapponesi e italoamericani piomba l’FBI, che li prende e li carica su treni dai vetri oscurati per deportarli a Fort Missolua, nel Montana.
Agli italoamericani va meglio rispetto agli altri, ma il razzismo e le discriminazioni rispuntano fuori. Raquel smette di baciarlo quando torna a casa, e sta fuori sempre più spesso, finché scompare assieme a tutto quello che Salvatore si era guadagnato negli anni. Nel 1942 è capo addetto al munizionamento quando legge che l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista sempre più strettamente unite scendono oggi, a lato dell’eroico Giappone, contro gli Stati uniti d’America.
In aviazione, per un pilota servono almeno sette uomini a terra; Salvatore viene caricato assieme a migliaia di altri uomini su un aereo da trasporto mentre la guerra mondiale infuria e gli USA del generale Patton preparano lo sbarco in Sicilia, aiutati proprio dai mafiosi italiani che tanto disprezzavano.
È il 1943, Salvatore ha trent’anni ed è in una base militare in Tunisia.
Le bombe prodotte negli Stati Uniti vengono assemblate sul posto per ragioni di sicurezza, e Salvatore si trova a prepare le bombe che per mano americana distruggeranno la sua vecchia casa di quand’era bambino. Quella Sicilia coi panorami vasti, il caldo, le cicale e le fronde degli alberi, una mela come premio per aver seminato e sua madre che gli metteva una tela di lino sopra le sfince per farle raffreddare sul davanzale. Finché si può dire che qualcosa è il peggio, significa che il peggio può ancora venire.
Salvatore prende un cacciavite.
In Italia, ad Agrigento, alle 7.30 del 12 luglio tremano muri e finestre, poi nel cielo appaiono dei puntini neri; sono 24 B-26 Marauder del 319° stormo USAAF che bombardano la città a tappeto devastando via San Pietro Luglio, in un massacro che trascina sotto le macerie anziani, donne e bambini. I pompieri fanno turni straordinari, richiamano volontari per tirare fuori superstiti che da sottoterra chiamano aiuto. Dopo qualche ora si sparge la voce che una bomba caduta nel serbatoio dell’acqua nella parte alta della città non è ancora esplosa. Non esistono artificieri, così tocca ai pompieri andare a vedere, e tra loro c’è un giovanissimo Filippo Aversa.
Impiegano poco a capire che è vero
Il legno di protezione della cisterna è sfondato e la bomba è lì dentro, un mostro con un diametro di trenta centimetri e lunga uno e mezzo. Fanno evacuare i dintorni, svuotano il serbatoio, la imbracano e la tirano fuori con una gru, poi scortati da Carabinieri la portano in una pianura verso Aragona. Non possono interrarla, non hanno mezzi per farla brillare.
Devono disinnescarla.
Mentre i Carabinieri tengono lontani i curiosi, i pompieri svitano gli alettoni posteriori. In una ventina di minuti riescono a rimuovere l’innesco posteriore e svitare l’involucro anteriore col detonatore. Appena tolto, è Filippo Aversa a notare qualcosa di strano. L’innesco è saldato. La bomba non poteva esplodere. Incuriosito, studia meglio l’oggetto e ci vede un’incisione scarabocchiata sulla vernice; stranamente è in italiano, e recita: “La patria si serve anche da lontano”.
Salvatore – se questo è il suo nome – ha sabotato quella bomba e chissà quante altre prima di sparire nel nulla, forse scoperto e fucilato, forse tornato negli USA senza mai raccontare la sua storia a nessuno.
Non sapremo mai la dimensione del suo lavoro, o quante vite ha salvato. È uno dei tanti anonimi eroi della seconda guerra mondiale di cui non c’è traccia nei libri di Storia. L’unico a raccontarla è Filippo Aversa che la tramanda a suo figlio, Mario, che a sua volta la racconta nella trasmissione I fatti vostri di Michele Guardì nei primi del 2000.
Finita la guerra, gli italiani troveranno decine di ordigni bellici inesplosi seppelliti dalle macerie del 1943, poi dalla terra battuta del 1950, dall’asfalto del 1960, dal cemento del 1970 e poi riportate alla luce durante le speculazioni edilizie. Sono sempre state fatte brillare, perché aprirle è pericoloso quanto inutile. Capita ancora oggi, e mi domando quante avessero una scritta simile, scarabocchiata dentro da un sabotatore italoamericano che non aveva ordini né superiori, solo quello spirito anarcoide che, nel bene e nel male, ci caratterizza da sempre.
[Ringrazio il signor Aversa per i documenti forniti e il professor Stefano Luconi dell’Università di Firenze per avermi spiegato con grande pazienza il contesto sociale degli emigrati italiani]