Asolo è un borghetto addormentato tra le colline venete, pietra e ville palladiane immerse nei colori dell’autunno. Sotto i portici si vedono ancora i nidi delle rondini, camminando in salita fino al cuore dove ci sono piccoli caffè, vetrine, veneti in loden e piumino che sorseggiano i primi bianchi della giornata al riparo dalla pioggia. Il municipio è incorniciato da colonne di pietra erosa dagli anni, ha una targa di marmo con inciso il bollettino della vittoria.
Si entra in un edificio della vecchia Italia, attraversando due pareti di fotografie che ritraggono i boat people fino a una scalinata di marmo su cui troneggia una lista di caduti durante la seconda guerra mondiale. Agli uomini che resero grande l’Italia, dice l’epitaffio, ricordando gli asolani che a casa non tornarono più. Fatta la seconda rampa di scale si arriva nella sala consiliare.
Parecchie vietnamite indossano i loro abiti lunghi tradizionali, colori primari e mostrine. Ci sono uomini della croce rossa in felpa di pile e sorriso, tra cui uno di loro vietnamita. L’associazione Marinai d’Italia, un ammiraglio in divisa, tanti civili azzimati con la cravatta del loro corpo d’appartenenza. C’è un chiacchiericcio chiassoso, molti si guardano attorno cercando nelle facce dei presenti un amico, un conoscente o un ricordo.
To Cam Hoi mi viene incontro, dice che ha tenuto due posti per me e Leonora. Entra il sindaco e va dritto a salutare l’ammiraglio che ha appena fatto il baciamano a un’anziana vietnamita coi capelli tinti e l’aria emozionata. Le pareti del municipio sono coperte da fili di nylon che supportano foto di cucine civili e militari, suore e infermieri, file di letti, magazzini interi di viveri, un bambino che tenta di mangiare il pomello del letto.
Quando mi volto, la sala è stracolma e molti stanno in piedi.
È la prima volta che questo incontro viene organizzato dagli italiani d’origine, mentre gli altri raduni – che sono arrivati a contare 200 persone – li hanno sempre fatti gli italiani d’adozione. Il sindaco Migliorini ha la voce emozionata ed entusiasta; dopo la canonica ventina di minuti di ringraziamenti arrivano le testimonianze degli italiani.
Un uomo che gestì tutta la parte organizzativa ad Asolo e racconta di come un poveretto fu costretto a stare 14 ore al telefono con Roma per dettare i nominativi dei vietnamiti presenti. O di come dovettero trovare un edificio in grado di accoglierli, non lo trovarono e occuparono la villa di un inglese con la forza, tanto quello chi lo vedeva mai – e infatti il proprietario non lo seppe mai. Parla un sottufficiale a bordo della Stromboli, raccontando di come l’idea fosse di offrire ai vietnamiti riso, ma ai vietnamiti piacevano molto di più gli spaghetti.
In platea c’è chi annuisce, chi lancia quell’esclamazione di chi ricorda qualcosa
Quando tocca ai vietnamiti prendere la parola, è la prima volta che ripercorrono quel viaggio, mentalmente. Non l’hanno mai fatto ad alta voce, prima. Nessuno di loro aveva mai raccontato cos’era successo a bordo delle barche; tra loro c’è anche Tu Phung Luong, una donna che di tutto questo non sapeva niente; ha scoperto chi era e da dove veniva leggendo l’articolo su Termometro politico.
I racconti sono spesso interrotti da voci che si spezzano mentre raccontano atrocità, paura, miseria, disperazione e preghiere. Linh aveva nove anni e racconta di avere pregato ogni notte, mentre i pirati li assaltavano e derubavano, che la provvidenza mandasse qualcosa o qualcuno a salvarli. «Poi» dice, e la voce le si incrina «Il terzo giorno in cui ho chiesto aiuto a Dio, lui mi ha mandato la marina italiana.»
Persino l’impassibile ammiraglio contrae, discretamente, le dita sul cappello.
È strano finire dentro una storia che hai scritto.
Passi giorni a ricostruire le cose, scartabellare fonti, fotografie analogiche sgranate, nomi, facce, bambini, uniformi obsolete e navi arrugginite. Farlo una volta dopo l’altra ti rende rapido ed efficace, ma ti fa dimenticare che stai parlando di esseri umani, di persone, storie, azioni che sono accadute davvero e che questa volta sono uscite dal foglio, mi hanno stretto la mano, abbracciato, baciato, ringraziato e invitato a tavola con loro.
Avrei tanto voluto mio padre fosse ancora vivo perché potesse vedere tutto questo, ma la vita è una donna che non perdona i ritardatari. Per me è stato un onore e un privilegio aver potuto assistere e partecipare a una riunione tra amici, e mi ha insegnato – o ricordato – che la Storia è una cosa viva, che l’Italia è un paese minuscolo e che ogni evento, ogni nome, anche il più remoto, può essere collegato a qualcuno o qualcos’altro nel presente.
Ed è una cosa da tenere a mente, se si vuole scriverne.