Camminare per le calli di Venezia in autunno o a fine inverno, quando le orde di barbari sono lontane, rende bene l’atmosfera originale della città che oscilla tra malinconia e curiosità. Di notte i passi – specie con scarpe o stivali di cuoio – rimbombano contro i muri di mattoni, la nebbia gelida impedisce di vedere a cinque passi e può capitare di non sentire una voce o un rumore per decine di minuti.
I veneziani, col freddo, vanno a letto presto.
Cammini e vedi vetrine di antiquari e maschere, o le poche botteghe di artigiani rimasti, quando da qualche parte t’arriva l’eco di un vociare. Non sai capire da dove viene, così ti fermi, stordito.
Alzi la testa e vedi una città differente dalle cartoline. Altane, balconi, finestre con vetrate intarsiate, disperati vasi di fiori rinsecchiti, panni stesi da studenti universitari inconsapevoli che l’indomani odoreranno di palude, un silenzio così profondo e spettrale da farti gelare le ossa. Rincorri quelle voci non perché ti serva qualcosa, ma perché Venezia col freddo ti spinge ad attaccarti a qualsiasi bagliore di vita, anche a costo di stare lì fermo a non far niente.
Alla fine, se hai fortuna, lo trovi. Di solito è una finestra sporca e malandata da cui esce una luce giallastra, la sensazione che lì dentro NAS e donne per bene non ci hanno mai messo piede. Forse anche entrarci solo non è una buona idea, ma quella finestra e quella porta di legno malandato sembrano il posto più accogliente del mondo.
Entri, e se hai viaggiato abbastanza trovi un incrocio tra le osmize triestine e i tuguri di Praga. Un bancone tirato su da un falegname ubriaco negli anni ’30, sedie e tavoli mezzi marci, nell’aria c’è odore di sudore, sigarette e un che di dolciastro. Vai al banco dall’onnipresente Nane o Bepi, chiedi un’ombra e mentre studi gli avventori, domandi cos’è quest’odore. Si tratta, ti spiega l’oste, della suca baruca, una zucca che cresce solo a Chioggia ed è assai meno nobile delle sue parenti italiane o cugine d’oltreoceano.
È brutta, di un arancione pallido. Viene cotta nel forno, estratta bollente, tagliata a fette grossolane e distribuita su salviette di carta oggi come 240 anni fa, quando la Canocchia di Goldoni la vendeva gridando “Zucca barucca, barucca calda”. Ed è per una fetta di suca baruca regalata da Toffolo a Lucietta che succedono le baruffe chiozzotte.
Il suo nome, infelice, viene dal fatto che a vederla pare una verruca.
Sarà una serata strana, quando scoprirete che il sapore sciapo unito al vino rosso di scarsa qualità si sposa magnificamente, cancellando amarognolo e solfiti. Del resto buona parte dei piatti italiani tradizionali nasce così: ingredienti poveri per gente povera che doveva riuscire a trovare una gioia nella vita. Uscirai sbronzo, dopo aver parlato per due ore con gente che non rivedrai mai più, ma avrai vissuto Venezia molto più di quanto migliaia di tour operator promettono.
Certo, c’è anche il pericolo di una scazzottata, ma basta imparare a riconoscere l’accento chioggiotto e andare verso il tavolo di gente con quello meno cantilenante.