L’Emilia Romagna non è mai stata come ora al centro del dibattito politico e mediatico.
Data sempre, e di default, come attribuibile alla sinistra dal 1945 in poi, è sempre stata definita la regione “rossa” per definizione assieme alla Toscana. Non si sono mai sprecate molte parole, articoli, editoriali su ciò che avveniva tra Piacenza e Rimini, sapendo che – punto in più punto in meno – la direzione politica sarebbe stata quella, la stessa da decenni.
Oggi dopo l’avanzata della Lega e del centrodestra trascinato da Salvini, si trova sulla linea del fronte. Questo accade dopo che altre regioni “rosse” ma non troppo sono cadute, come l’Umbria, per non parlare di quelle che erano sempre state in bilico, come Abruzzo, Sardegna, Umbria, Friuli.
Per il centrosinistra insomma si tratta della propria Stalingrado, e anche in virtù dell’importanza dell’elezione chiede al Movimento 5 Stelle di allearsi, nonostante l’intenzione del movimento di correre solo dopo il voto su Rousseau.
Andando indietro nel tempo però ci accorgiamo che in realtà il voto per il centrosinistra era cominciato a calare, in valore assoluto, già dal 2010.
Se i candidati del PDS/DS come Bersani o Errani si erano mantenuti intorno al milione e mezzo di voti nel 1995, 2000 e 2005, nel 2010 lo stesso Errani era sceso a circa 1,2 milioni e nel 2014 Bonaccini solo alla metà. Un calo non spiegabile con la presenza dei pentastellati, che avevano avuto 161 mila e 167 mila voti nel 2010 e nel 2014.
Tra l’altro già in passato vi erano state candidature terze: di Rifondazione, dei radicali e centriste.
È un calo motivato e allo stesso tempo mascherato dalla diminuzione dell’affluenza, che naturalmente colpisce anche il centrodestra.
Elezioni Emilia Romagna, i risultati in percentuale nelle scorse votazioni
Tuttavia per esempio nel 2010 i voti del centrodestra calarono molto meno di quelli del centrosinistra, solo di circa 44 mila unità. È stato nel 2014, anno pessimo per la coalizione di centrodestra, che sono crollati, portando la percentuale dei voti, che era sempre oscillata tra 35% e 40%, sotto il 30%.
Il centrosinistra però è calato sotto il 50%, dopo averlo sempre superato. Questo anche a causa del 13,3% del Movimento 5 Stelle, che è cresciuto in 4 anni del 6,3% nonostante solo 6 mila voti in più, e del 4% della sinistra radicale.
Contando insieme centrosinistra ufficiale e sinistra radicale si era superato il 60% nel 2005 e nel 1995, si era scesi al 56,5% nel 2000, un anno sfavorevole alla sinistra.
I tempi erano quindi già cambiati, e il dato più evidente è il fatto che nel 2014 centrodestra e centrosinistra insieme hanno ottenuto meno di un milione di voti, cifra che il centrosinistra una volta superava da solo.
Il punto è che gli astensionisti, o coloro che hanno votato altro, per esempio il M5S, non è detto che ritornino al loro vecchio voto. Non sono perduti, certo, e la probabilità che rivotino il partito che sceglievano prima dell’astensione è alta, ma l’avere lasciato in così tanti uno schieramento indica che un rimescolamento è possibile.
C’è più di un milione di elettori che non ha più votato nel 2014, e il loro comportamento attuale non può essere dato per scontato sulla base di vecchi schemi.
Il 26 gennaio come nel 2014 non si voterà nell’ambito di un election day, cosa che aumenta l’incertezza del comportamento di voto ovvero dell’esito finale.
Ma sarà anche il voto meno locale tra tutti quelli che hanno interessato la regione dal 1995. Come i sondaggi dimostrano, mai come in questo caso regna l’imprevedibilità.
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