L’affare Dreyfus è noto agli appassionati di Storia e in Francia viene insegnato nelle scuole perché ebbe una eco enorme, spaccò in due la Francia e rase al suolo un paio di governi, portando il clima per le strade molto vicino alla guerra civile quando Emile Zola, dalle pagine de L’Aurore, lanciò il famoso “J’accuse…!” diventato modo di dire comune ancora oggi.
Ci va di mezzo l’emergente razzismo verso gli ebrei, ma si basa su una domanda molto difficile: è giusto, per una buona causa, sacrificare un innocente? E una causa che ha bisogno di sacrificare un innocente, è davvero una buona causa? A questo si aggiunge il senso dell’onore, quello dello Stato e dei suoi apparati contro quello di un uomo e la sua idea di esistenza. Non conta solo la vita, ma quello che lasci di te; preferiresti vivere nell’ignominia, con la tua famiglia che si vergogna a uscire di casa, oppure morire sapendo che potranno camminare a testa alta?
Insomma, è una storia con un potenziale gigantesco.
Il film nasce dal romanzo di Robert Harris, che aveva già lavorato con Polanski alla sceneggiatura di un altro suo romanzo, The ghostwriter. Qui il duo replica con risultati… bè, complessi. L’ufficiale e la spia è una gioia per gli occhi; la fotografia è da sindrome di Stendhal, scenografie e costumi sono impeccabili, l’uso della macchina da presa magistrale e un paio di scene sono di grande effetto.
Il film funziona, e del resto stiamo parlando di uno che ha girato capolavori assoluti come Rosemary’s baby (scritto da lui), Chinatown (scritto da Towne), L’inquilino del terzo piano (scritto da Brach) e La nona porta, che avrò visto una decina di volte. Roman è uomo di gigantesco talento, e si vede.
Allora qual è il problema?
Che manca l’umanità.
Del popolo, innanzitutto, relegato a comparsa quando invece era il vero protagonista e giocò un ruolo enorme sulle giurie e sui verdetti. L’umanità dei protagonisti, che mancano di spessore e si limitano a esercitare il loro ruolo e le loro scelte come automi; nessuno ha ripensamenti, dubbi, incertezze, sofferenze, gioia, insomma, emozioni umane. Anche quando la posta in gioco è alta – la devastazione della propria carriera, o la prigionia, o entrambe le cose – non sembrano preoccuparsene o soffrirne.
Sono impassibili, e io con loro.
Accettano tutto come se non li riguardasse. Pur essendo alla fine del 1800, pur essendo militari con relativa dignità e senso dell’onore, finiscono per sembrare dei manichini. Anche la storia d’amore è meccanica e forzata, con una conclusione al limite del surreale. In sostanza, credo il problema consista nell’aver voluto sacrificare l’efficacia della narrazione sull’altare della fedeltà storica.
Vuole essere film e documentario insieme, per questo riesce a metà
Rendere coinvolgente indagini basate su fogli, calligrafia, dialoghi e processi è ambizioso quanto complicato, perché il cinema è azione, gesti, movimento e soprattutto emozioni. Per reggere due ore così è necessario lo spettatore si stia cagando addosso dalla paura, e la paura viene dall’empatia verso i protagonisti o il popolo.
Tutto questo manca.
Posso immaginare il motivo risieda nel volersi attenere ai fatti, e questo gli farebbe onore se si trattasse di un documentario o docufilm: ma allora avrebbe dovuto durare un’ora di meno e avere una costruzione a capitoli brevi che si chiudono con delle domande. Se invece si vuole fare un film di due ore, bisogna per forza dare allo spettatore qualcosa che gli faccia capire la posta in palio. La situazione per le strade di Parigi, gli effetti sulla vita di tutti i giorni, il dilemma di uomini di Stato che devono scegliere tra il proprio paese e il proprio nome. Insomma, c’è tantissimo mestiere e poca empatia.
Vale la pena vederlo? Certo che sì: è Polanski e c’è bellezza a ogni fotogramma.