Paolo Lolli nasce nel 1965 a Bertinoro, vicino a Forlì. Appena è in grado di leggere, suo padre gli regala un fumetto di Corto Maltese, La ballata del mare salato. Per Paolo è un’illuminazione, e decide che nella vita vuole essere come il personaggio più citato nelle bacheche dei cinquantenni su Facebook. Ha senza dubbio capacità e carisma; fonda la Rimini Yacht, un’impresa che procura barche a gente ricca e che nel 2007 fattura ben 32 milioni di euro.
Il segreto del suo successo consiste nel truffare i compratori e le banche; grazie a una sua impiegata, Samantha Pizzo, fa falsificare i documenti dalla tipografia di un suo parente; oggi lei dice sia stata costretta con la forza, lui dice che è stata costretta da 400,000 euro nel conto corrente e commissioni per qualsiasi evento. Con i documenti contraffatti si presenta all’ufficio del registro di San Marino e poi dalle banche, con cui fa leasing milionari a nome di due, a volte tre acquirenti.
Poi incassa e fugge, con la lungimiranza tipica degli uomini d’affari. Rimini e la vita costiera, specie nell’ambito nautico, sono una miniera di contatti.
“Cosa può andare storto?”
Paolo conosce uomini di ogni tipo e mentre fa epiche seratone a puttane in ristoranti sciccosi con Angelo Cardile (ex GdF), Massimiliano Parpiglia (ex GdF) e Giorgio Baruffa s’ingegna per convincere da un lato le banche a scucire più soldi, dall’altro a fare in modo che la Guardia di Finanza guardi altrove, dall’altro a pagare la sua escort personale. Sono grandi feste, gozzovigli e regali per avere finanziamenti dalla Banca Popolare di Spoleto, addirittura grazie alla mediazione di Flavio Carboni, ex P2ista coinvolto con l’omicidio Roberto Calvi e poi con la P3.
Tangenti?
No, è una parola brutta e demodèe.
Per sbloccare i finanziamenti delle banche, Paolo regala al presidente del consiglio di amministrazione – amico di Carboni – uno yacht Bertram da due milioni di euro e una Aston Martin. La vita è bella, poi inaspettatamente una cliente truffata lo denuncia; Paolo corrompe i finanzieri, ma altri lo sgamano e patteggia 4 anni mentre un ex generale dei Finanzieri, durante la perquisizione in casa, va in camera a vestirsi e si suicida.
Nel 2010 la società Rimini Yacht fallisce, ma Paolo ha messo da parte un tesoretto di 300,000 euro fatto di gioielli in oro bianco, diamanti, perle, quattro orologi da vendere in caso di bisogno (Patek Philippe, Cartier, Universal Geneve e A-Lange & Sohne), 38,500 in contanti. Un po’ lo tiene nella sua casa a Bologna, l’altro in una cassetta di sicurezza della Carisbo, a Bologna.
“Pentito di essere diventato un truffatore?” gli chiederanno i giornalisti.
«No, mi è venuto naturale farlo, non ci ho pensato due volte. Il primo leasing farlocco l’ho fatto nel 2007.»
Gli è venuto naturale.
Si rende latitante e al timone di un modesto Bertram 570 fugge ad Annaba, in Algeria, da cui proviene il primo movimento di denaro della sua carta di credito. Non si sa bene cosa ci combina, ma poi va a Tabarca, posto turistico della Tunisia dove s’incontra con un suo grande amico, tale Imed Trabelsi e nipote di Ben Alì, un bandito figlio di banditi che nel 2006 rubava yacht in Francia, oggi è la famiglia più potente della Tunisia e la sta rapidamente facendo sprofondare nell’anarchia.
Ben Alì aiuta Paolo ad aprire un’attività di import-export di yacht; la procura italiana manda una richiesta d’estradizione che sarebbe stata snobbata, se non fosse che dove non arriva lo Stato italiano arriva la primavera araba.
La famiglia di Ben Ali viene deposta dopo l’ennesima porcata, la rivolta è nelle strade; in quelle ore frenetiche non si capisce cos’è successo a Ben Alì: un anonimo informatore italiano “che ha delle attività in nordafrica” informa il Corriere che sarebbe stato assassinato a coltellate, altre fonti dicono che è fuggito in Italia, nessuno saprà mai la verità. Paolo capisce che tira brutta aria, prende il suo fido Bertram 570 e questa volta salpa verso Malta.
Appena arrivato si accinge a fare rifornimento di carburante e viveri, mentre alla capitaneria di porto maltese arriva dall’Interpol una comunicazione tipo “fermate quella barca o vi scuoiamo vivi”. Paolo sa bene che non è ospite gradito e per un pelo riesce a scappare e a raggiungere le acque internazionali braccato dalle motovedette.
Stavolta approda a Tripoli, e grazie ai suoi conti correnti in Svizzera e San Marino – 300 milioni di euro, circa – si trasferisce all’hotel Rixos per spassarsela tra i giornalisti accorsi lì per documentare la primavera araba. Impiega poco a fare amicizia e spacciarsi come contatto informato e credibile, così può cominciare a scrivere sui giornali italiani distribuendo consigli all’Italia su come evitare gli sbarchi:
«Scrivetelo» dice Lolli, intervistato «Il vostro governo sta buttando i soldi in mare. State addestrando e fornendo motovedette a una Guardia Costiera che a Tripoli non ha accesso al mare. A Misurata invece sarà inutile perché le barche dei migranti non partono da lì».
Interpol e servizi segreti italiani (che nel tempo libero devono gestire anche ‘sto soggetto) lo trovano a Tripoli il 13 gennaio 2011 (“questo è il tavolo dove mi hanno arrestato…”) e la polizia di Gheddafi lo butta nella Jdeida, un carcere libico. Purtroppo il 17 febbraio c’è la rivoluzione, le strade sono in piena anarchia, le carceri vengono assaltate e Paolo fugge assieme ai compagni di cella in una carneficina di detriti, bossoli, fumo e cadaveri.
La polizia di Gheddafi lo riacciuffa e stavolta lo mettono nella “buca”, una cella di un metro e mezzo alta 12 metri nel carcere di Ayn Zarah, a sud est della capitale. Qui Paolo dorme per terra in diagonale, mangia un pezzo di pane la mattina e maccheroni la sera, mentre per 10 giorni le guardie lo ravanano di botte perché è divertente. Proprio mentre fa un bilancio sulla sua vita, la notte tra il 20 e il 21 agosto Tripoli viene bombardata dai francesi, le guardie scappano, 400 detenuti si liberano e corrono a dare l’assalto a Bab al Azizya, roccaforte di Gheddafi. Tra loro c’è anche Paolo, che tra una fucilata e una granata fa amicizie anche lì.
Sono bravi ragazzi, dopotutto, no?
No.
Purtroppo le carceri libiche non sono il Rotary club o il Circolo canottieri, e Paolo si è appena affiliato ai miliziani del cartello islamista Majilis Shura Thuwar, controllati da Ansar Al-Sharia, una branca di Al Qaeda. Lui ci tiene subito a rendersi utile e gli garantisce rifornimenti di armi e approvvigionamenti via mare, dato che via terra non è sicuro. Lo fa con due suoi yacht ormeggiati a Rimini, il Mephisto e Leon che una volta salpati vengono dipinti di grigio, dotati di armi e ribattezzati Buka El Areibi e El Mukhtar. Paolo viene quindi nominato “comandante delle forze rivoluzionarie della marina”
«Ho cominciato a compiere missioni via mare per portare medicinali, generi di prima necessità, batterie per un minimo di elettricità a Bengasi assediata» spiegherà agli esaltatissimi giornalisti, definendosi «un ufficiale delle Forze speciali di sicurezza marittima, una brigata di 153 uomini che controlla il porto di Tripoli».
Racconta il suo matrimonio con una donna araba, Weidan, il cui nome significa “dal profondo del cuore”. Lì la gente lo chiama capitano Karim, “il capitano che salva i feriti”. Insiste che lo Stato italiano dovrebbe finanziare Tripoli, e nello specifico le Forze Speciali di Sicurezza marittima, ben 150 pronti e addestrati. Fatalità li comanda lui. Purtroppo la Libia non è nota per essere un luogo di ameni svaghi e nel 2013 lo rapiscono delle fantomatiche milizie che lo tengono in ostaggio chiedendo all’Italia un riscatto di 100,000 euro.
Non accade, chissà perché.
Dopo tre mesi Paolo torna a occuparsi di aiuti umanitari. Nel giugno 2017, durante l’operazione Sophia della EunaforMed, la marina militare lo trova con a bordo lanciarazzi, fucili mitragliatori, pistole, munizioni, mine anticarro e tanti sorrisi. Lo arrestano e il 17 dicembre 2017 entra nel carcere di Mitiga con accuse di terrorismo e detenzione illegale di armi da fuoco. Sono anni difficili, mentre dall’Italia gli giunge voce del sequestro di due ville, una a Pennabilli (Rimini) e l’altra a Casalecchio di Reno, per un totale di due milioni di euro.
Il 23 settembre 2019 il tribunale di Tripoli lo condanna all’ergastolo e lo espelle, consegnandolo finalmente nelle premurose braccia del ROS dei Carabinieri. L’Italia perde così un promettente blogger (la sua pagina Facebook purtroppo non è mai decollata).
E c’è gente che nella bio scrive “cittadino del mondo”, capite.